Anzaldo

17 Giugno 2019
“Io vedo che, quando allargo le braccia, i muri cadono. Accoglienza vuol dire costruire dei ponti, non dei muri”, scriveva Andrea Gallo, prete degli ultimi, prete “della strada”, come lui stesso amava definirsi. Per me Anzaldo è stato questo: accoglienza. Ed era esattamente quello che stavo cercando, era quello che speravo di trovare, perché proprio per quel motivo avevo deciso di partire.

Come medico, ma ancor prima come persona, mi accorgevo sempre di più di quanti muri le persone mettano continuamente tra di loro, a dividersi. Muri fatti di silenzi, di mancanza di ascolto e di attenzione, di pregiudizi, di bugie, di odio, di discriminazione, di razzismo, ma soprattutto di paura. Paura dell’altro, che per definizione è diverso da noi.

E più è diverso, più questa paura aumenta, e i muri diventano ancora più alti. Diverso perché viene da un Paese che non è il nostro, diverso perché parla una lingua che non è la nostra, perché ha una cultura che non è come la nostra, perché non crede nel nostro stesso Dio, perché è povero, perché è malato, perché ha bisogno di un lavoro, perché ha bisogno di aiuto.

In un mondo che di continuo costruisce dei muri, fisici o mentali che siano, ho trovato un piccolo angolo nel cuore delle Ande in cui si costruiscono ponti. Pietro e la sua famiglia sono questo. La loro casa e il loro ospedale hanno le porte spalancate per tutti, senza distinzioni, senza pregiudizi, senza discriminazioni, senza paure. Loro accolgono. E accogliere significa innanzitutto accettare, accettare l’altro per quello che è, e farne tesoro, farne ricchezza. Vuol dire entrare nella sua vita senza la pretesa di capirne per forza le differenze, né tanto meno di cambiarle. Vuol dire confrontarsi, perché solo col confronto, con lo scambio si può crescere davvero. Vuol dire aiutare, per quanto si possa, per quanto l’altra persona lo permetta, perché la sua decisione viene prima di tutto, anche quando questa decisione, qui, nel “mondo occidentale”, probabilmente non verrebbe capita. Mi viene in mente, a tal proposito, il caso di un giovane ragazzo con una pancreatite, che poteva essere operato dal nostro chirurgo, ma che alla fine decise di non farsi curare. Accogliere è anche questo: accettare, a volte senza comprendere. Ed è forse la cosa più bella che si possa fare, non solo come medici, ma soprattutto come persone.

Quando si è aperti all’altro, e quando questo modo di vivere diventa uno scopo comune e condiviso, le differenze non sono più ostacoli, anzi… si vedono braccia che si spalancano e ponti che si creano dappertutto! Ecco cosa ho imparato là, ecco cosa ho respirato ogni giorno ad Anzaldo. Ed è quello che mi porterò nel cuore per tutta la vita.

 



Anna Menghini

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