Campagna interventi intestinali

29 Giugno 2020

Al nostro ospedale è in corso un’intensa campagna di interventi intestinali per la popolazione di Anzaldo. Per condurla contavamo sull’arrivo di due chirurghi volontari italiani, i dottori Michele Anzà e Dino Garofalo, freschi di pensione e animati dal desiderio di mettere la loro preziosa esperienza chirurgica a disposizione di chi ha bisogno. I due medici sarebbero dovuti restare una ventina di giorni, eseguendo gli interventi necessari per ripristinare il normale funzionamento intestinale per quattro o cinque nostri pazienti, già operati per la malattia di Chagas.

Questa patologia, comune in questa zona, colpisce generalmente la popolazione rurale, gente povera che vive in case di adobes (terra e paglia) a contatto continuo con gli animali domestici. Una cimice-vettore (vinchuca), che si nutre di sangue, passa con il parassita dall’animale all’uomo, contagiando cuore e intestino, i due organi bersaglio del parassita.

I danni causati al cuore si riparano parzialmente impiantando un pace-maker; per i danni all’intestino si rendono necessari due interventi chirurgici in successione. Il primo serve per asportare la parte di intestino danneggiata, creando uno scarico artificiale laterale nella parete addominale. In un secondo tempo, si interviene per ricongiungere il moncone libero in addome al retto, ripristinando il naturale scarico intestinale. Se il primo intervento salva la vita del paziente, il secondo è indispensabile per assicurargli una decente qualità di vita. Tutto questo sarà chiaro a chi leggerà le due storie esemplari che sto per riferire.

Purtroppo la pandemia in corso ha bloccato in Italia i due medici, il cui arrivo potrebbe a questo punto essere rinviato al prossimo anno. Così abbiamo deciso di intervenire con le sole nostre forze su pazienti che hanno bisogno di completare con la seconda operazione il loro percorso di superamento sia della malattia che delle sue conseguenze degradanti.

Juan Rodriguez è padre di 8 figli; lo abbiamo operato circa tre anni fa per una dolorosa distensione addominale causata da volvolo intestinale. La moglie rifiutava l’operazione e avrebbe voluto portarlo a casa a morire. Per salvare Juan abbiamo dovuto intraprendere un’autentica lotta, con una resezione intestinale molto bassa al retto; un secondo intervento per un ulteriore abboccamento, che sarebbe stato necessario per ridare all’intestino la normale funzionalità di scarico, era impossibile in quelle condizioni. A Juan spiegammo che quanto realizzato era un intervento definitivo e che era impensabile operare di nuovo: il suo scarico intestinale all’addome con il sacchettino era quindi una condizione con cui avrebbe dovuto convivere per sempre.

Juan vive nella comunità di Quebrada Onda, in una vallata che offre un panorama dove tutto sembra fermo al giorno della creazione. La strada carrozzabile si ferma molto prima, e per raggiungere la sua casa occorre camminare su sentieri appena tracciati. Per l’acqua si deve scendere al fiume, distante più di un’ora di cammino.
Ma per Juan dopo l’intervento la vita è un calvario di rifiuto e solitudine. Lui racconta piangendo che, da quando l’intestino scarica senza preavviso nel sacchetto laterale all’addome, la moglie lo rifiuta, la comunità lo ha esonerato dalle riunioni obbligatorie che sono un momento importante per la vita sociale, fondamentale per mantenere il senso di appartenenza. Rifiutato da moglie e figli, messo ai margini dalla comunità, a posteriori ha finito per dare ragione alla moglie quando essa diceva che era meglio lasciarlo morire invece di operarlo e fargli poi subire l’isolamento famigliare e sociale.
Juan si era ridotto a condurre una vita randagia. Viveva come un cane, nutrendosi unicamente di un pugno di mais. L’addome lasciava vedere un’ernia del moncone intestinale da cui fuoriuscivano le feci. Insomma la chirurgia l’aveva salvato dalla morte, ma l’aveva condannato all’isolamento come fosse un lebbroso.

Questo caso ci ha messo di fronte alla cruda realtà del peso che deve sopportare il paziente condannato a una vita insopportabile dall’impossibilità di essere operato una seconda volta. Si è imposta quindi la necessità di un programma di interventi per restituire la naturale funzionalità dell’intestino. Consultandoci con i professori italiani, il problema dell’impossibilità per il chirurgo di cucire manualmente è stato risolto ricorrendo allo “stapler”, la suturatrice meccanica.
In questo modo è stato possibile eseguire il secondo intervento su Juan. Il dottor Walter Antezana, esperto chirurgo boliviano, ha usato lo “stapler” per ricucire i due monconi in uno spazio ristretto della fossa pelvica. Ora, al terzo giorno dall’intervento, sembra che i punti metallici tengano e c’è la speranza che Juan possa tornare presto a una vita normale, riavvicinandosi alla sua famiglia e reintegrandosi nella comunità.

Felix è piú giovane di Juan, ha 54 anni, e proviene da una comunità sperduta sulle pendici di una scoscesa valle. La sua casa, con tetto di lamiera e quattro muri di “adobes“, è isolata e nascosta alla vista di chi viene dalla strada; quando la si raggiunge a piedi, lascia scoprire un panorama unico, con il fiume a fondo valle che si perde in lontananza. La casa di Felix è costruita su un fazzoletto di terra coltivato a mais, l’unico suo sostentamento. Non ha animali e nel tempo delle piogge arrotonda le sue entrate con la raccolta della “ulupica“, un frutto silvestre che cresce in zone impervie del monte, e per il suo sapore piccante è usato come salsa che dà uno speciale gusto al cibo. Nei giorni piú fortunati raccoglie fino a un secchio di ulupica per venderlo al mercato di Anzaldo a cinquanta ‘boliviani’. Per pagare il suo intervento servirebbe almeno un centinaio di secchi…

Alla notizia che l’avremmo operato gratis, il suo viso si è illuminato e sotto i baffi gli è spuntato un sorriso. Felix vive da solo, non ha moglie né figli. A chi gli domanda come mai non si è sposato risponde che nei luoghi dove vive non ci sono ragazze da marito. Per vendere il mais che produce deve portare a spalla un sacco di una cinquantina di chili sull’unica strada dove passa un camion una volta alla settimana. Questo sforzo, poco a poco, ha causato il cedimento della parete addominale che contiene l’intestino, che ora fuoriesce abbondantemente da una vistosa ernia. Anche lui ha finito per essere isolato dalla comunità a causa del fetido odore degli escrementi raccolti in una semplice borsa di plastica.
Felix racconta che da anni non vede la città. Teme che il fetore che emana, e si sente a distanza, lo esponga all’umiliante rifiuto di un passaggio sui mezzi pubblici; questo significherebbe dover percorrere, fra andata e ritorno, una novantina di chilometri a piedi.

Felix, saputo del nostro programma di chirurgia intestinale avviato lo scorso anno, in diverse occasioni era venuto all’ospedale per chiedere quando sarebbe venuto il suo turno di essere operato. Finalmente è arrivato il suo momento, e a differenza di Juan per lui non c’è nemmeno stato bisogno della suturatrice meccanica.

Nello sdraiarsi, dopo l’anestesia spinale, tranquillo mi dice che trova il tavolo operatorio molto comodo; nessuno aveva mai detto una cosa simile e il chirurgo commenta che anche il materassino del tavolo chirurgico deve essere confortevole per chi è abituato a dormire sulla dura terra.

L’anestesia locale ci permette di parlare e scherzare durante l’intervento; così ci sorprende vederlo piangere all’uscita dalla sala operatoria. Mi confessa che le sue lacrime non sono dovute al dolore; piange perchè non ha trovato nessuno ad aspettarlo. Oltre ad essere povero di mezzi è anche povero di affetti. Ma si illumina di speranza quando gli diciamo che ora il suo intestino riprenderà a funzionare e scaricherà in forma naturale.

Altri pazienti, come Donata e Fidel, sono inseriti in questo programma e saranno operati nei prossimi giorni. La nostra gioia è data dalla consapevolezza di aver mantenuto la promessa fatta a persone molto semplici e povere, che non hanno voce per rivendicare il loro diritto a un vita degna di questo nome. Il loro silenzio ci fa sentire più forte ancora la responsabilità di aiutarli.

Dott. Pietro Gamba

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