Contagio… tra malati

16 Febbraio 2017

Stamattina è arrivata una mamma preoccupata perché nonostante molti tentativi e aiuti chiesti ad ausiliari di salute della sua comunità, non è riuscita a togliere un sassolino impiantato nell’orecchio sinistro del suo bambino di poco più di 5 anni.

Israel, questo il suo nome, giocando tra la terra con gli amici della sua stessa età, si è sentito entrare un sassolino che non voleva più uscire dall’orecchio e che gli causava un forte dolore tale da non lasciarlo dormire.

Abbracciato alla mamma, sul lettino dell’emergenza, strillava aggrappato all’unica persona che lo poteva consolare e tranquillizzare.

È partito all’alba su un camion di trasporto per arrivare fino a noi. La sua età supera i cinque anni e questo diventa impedimento per un aiuto gratuito da parte dello Stato… Non c’è bisogno di chiedere per sapere che la mamma non ha soldi. Con 36 anni e sette figli, si trova nel nostro ospedale con il suo piccolo che porta le sue “abarcas” consumate e rotte (ciabatte ricavate dai copertoni usati) con tanti km percorsi a piedi e un semplice ma pericoloso sassolino nell’orecchio che non vuole uscire.

Incarico Davide, giovane medico e volontario ormai da un mese e mezzo qui con noi, di prenderlo in cura per tentare di vedere e rimuovere il corpo estraneo dall’orecchio del piccolo.

Il compito apparentemente banale e facile, una volta messo in atto si dimostra di grande difficoltà. Il bambino, appena sfiorato, comincia a strillare rendendo impossibile ogni azione di soccorso o tentativo di calmarlo. Da cinque giorni ha dolore e non sappiamo quanti prima di noi abbiano tentato la risoluzione del problema, forse, o certamente, con mezzi non troppo idonei, senza riuscirci.

Davide mi chiama e vedo la mamma seduta con il suo bambino che piange disperato sul lettino. Sento che all’orecchio gli suggerisce: “Stai fermo, che ora il dottore sta per toglierti il male. Se non stai fermo non riesce, e non abbiamo soldi per andare da un’altra parte”.

Insiste ancora Davide con l’otoscopio, litigando con la luce e l’apertura strettissima del canale uditivo, fino ad intravedere sul fondo il sassolino che, in fondo all’orecchio è diventato come un masso irremovibile.

Per non causare più danni di quelli che già gli hanno fatto, dico: “Deve andare da un otorino, uno specialista esperto in città che ha migliori strumenti e maggiore esperienza della nostra affinché non venga danneggiato il timpano”. Questa la mia prima decisione. La mamma terrorizzata da questa prospettiva, scoppia impaurita a piangere e spasmodicamente ripete al piccolo: “Devi stare fermo perché siamo senza soldi e devi lasciarli fare senza muoverti! Devi stare fermo perché noi in città non possiamo andare!”. Davide mi dice: “Se me lo addormenti con un’anestesia generale credo di poter togliere il sassolino… L’ho intravisto in fondo all’orecchio!”. Dapprima incerto, poi mi decido: “Va bene, vada per l’anestesia generale”. Davide trova il bambino che dorme, e, alle sue prime esperienze in questo lavoro da terzo mondo, mette tutta la sua volontà come in una scalata, dove non può tornare indietro ma solo andare avanti con la vetta da conquistare.

Poco a poco, tra lavaggi, aggiustamenti della luce, cambio di pinze e strumentazione varia, riesce a estrarre un po`di materiale, piccoli frammenti di pietruzze friabili. La vetta e il trionfo arrivano quando una scheggia di pietra di qualche millimetro, viene estratto dal fondo dell’orecchio. Dopo circa un’oretta di sforzi, è come un tesoro portato alla luce!

La gioia per l’impresa contagia tutti e coinvolge anche gli altri pazienti che, attratti dalle prima grida del bambino, si sono immedesimati nell’accaduto e vogliono partecipare dando una mano! Così uno di loro, venuto dalla città, regala il maglione di sua moglie alla madre del piccolo perché è evidentemente vestita senza riparo dal freddo e gli dona anche il suo mantello.

Ma la cosa ancora più bella è vedere il bambino che si sveglia dall’anestesia e che, oltre alla cura gratuita, trova un regalo inatteso: un pacchetto di biscotti per il suo viaggio di ritorno, oltre ad un completo di pantaloni e maglioncino azzurri donato dai pazienti.

Un contagio diretto non di malattia ma di gesti che fanno bene.

Dott. Pietro Gamba

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