Grazie Dottore

10 Settembre 2024

“Grazie, Dottore”. Il riconoscimento viene da Wilson, il figlio di Luisa, una paziente di 72 anni da noi operata d’urgenza di addome acuto, per un volvolo intestinale (attorcigliamento dell’intestino) causato dalla malattia di Chagas. L’uomo aveva trascorso la notte intera con noi accanto a sua mamma, mantenendo sempre viva la speranza che i monitor segnassero valori normali o almeno incoraggianti, anche con l’aiuto di infusioni in pompa di farmaci vasoattivi che ci erano state suggerite da un amico terapista. Purtroppo, nonostante le amorevoli cure, Luisa ci ha lasciati.

Luisa sembrava una vecchietta, una gracile nonnina; l’avevamo già conosciuta e curata per la malattia di Chagas, che ancora affligge in particolare gli anziani nelle aree più remote e abbandonate del Paese. Qui le case dei poveri sono costruite con quelle che vengono chiamate adobes, blocchi di terra e paglia essiccati al sole. Questi blocchi sono luoghi adatti per la riproduzione della ‘vinchuca’, la cimice che attacca l’uomo di notte iniettando nel sangue il parassita che causa lentamente la malattia, intaccando l’intestino (che negli anni si attorciglia fino a bloccarsi) o il cuore, che rallenta i battiti fino a rendere necessario l’impianto del pacemaker.

Dunque conoscevamo da tempo Luisa, che veniva in ospedale solo quando non riusciva più a sopportare i dolori causati dal gas che non riusciva più a eliminare a causa del blocco intestinale. Questi dolori lancinanti venivano eliminati decomprimendo il gas con una sonda rettale passata con il rettosigmoidoscopio, uno strumento che ho conosciuto ben presto quando sono arrivato ad Anzaldo. I medici locali intorno a noi non hanno ancora in dotazione questo strumento, nonostante la patologia sia ancora molto diffusa in queste zone rurali. E dire che il suo uso può evitare gravi sofferenze, e addirittura salvare molte vite, scongiurando l’intossicazione del sangue e la conseguente sepsi che spesso si rivela irreversibile.

Credo che sarebbe un’ottima idea distribuire un rettosigmoidoscopio alle quattro comunità confinanti con noi del Nord Potosì – da dove provengono i pazienti colpiti da questa malattia – naturalmente dopo aver istruito i medici sul suo uso.

Luisa è tornata da noi lamentando dolori insopportabili che la tormentavano da due giorni; accompagnata dal marito e da due figli, è arrivata in ambulanza da Acasio, un pueblo sperduto tra le montagne del Dipartimento del Nord Potosì, distante da noi una settantina di chilometri. La sua speranza era che ancora una volta il trattamento da lei già sostenuto in passato potesse risolvere il problema.

Questa volta però il ritardo nel decidersi a ricorrere a noi aveva complicato le cose. Abbiamo dovuto chiamare il chirurgo e, in sala operatoria, la situazione si è rivelata ancora più compromessa del previsto, con un intestino disteso e ischemico, nero come il copertone di un camion. Cercando di riportare l’organo nella sua posizione naturale, il chirurgo ha trovato un addome con peritonite e in mano un intestino assottigliato e fragile, che si è subito perforato riversando liquido fetido e gas.

A quel punto la sfida era poter salvare Luisa dall’inevitabile sepsi; l’intervento è stato sopportato bene, ma nel decorso post-operatorio i valori pressori si sono abbassati al punto di portare in sofferenza i reni che non filtravano più l’urina. Le sostanze tossiche assorbite gradualmente nel circolo sanguigno hanno portato all’avvelenamento, fino allo shock settico fatale. Non si è potuto più fare niente, nonostante il sostegno a distanza di un amico intensivista.

La speranza ci ha comunque sorretto fino alle cinque del mattino; nella notte insonne la stanchezza veniva allontanata dall’impegno e dalla speranza nel miracolo di vedere un rialzo della pressione. Ma alla fine è giunta la resa, vedendo che Luisa piano piano si spegneva. Aveva 72 anni, un mese più di me. Prima di accettare la necessità del ricovero doveva aver sopportato dolori inconcepibili, date le condizioni del suo addome, con la perforazione dell’intestino necrotico e dilatato dai gas e dai liquidi ritenuti. Le abbiamo voluto bene, e l’abbiamo seguita nelle sue ultime ore accanto ai suoi famigliari con i quali abbiamo condiviso i suoi ultimi momenti, quando ormai incosciente non ci riconosceva più.

Qualche ora di sonno non è bastata, al risveglio, per scacciare l’angoscia che ci aveva colto con la morte di Luisa, una perdita che ha il sapore della sconfitta. L’unico pensiero che ci ha un po’ rasserenato è stato la consapevolezza di aver fatto tutto il possibile, senza risparmiarci e tentandole tutte, per salvarle la vita.

Il corpo immobile di Luisa, avvolto in una coperta, con ai suoi piedi un mazzo di fiori raccolti nel nostro giardino, ora riposava accompagnato dal pianto dei parenti che ci avevano dato fiducia, affidando a noi la speranza di salvezza.

Conosco, e in parte comprendo, la rabbia che può essere causata dalla perdita di una persona cara, una rabbia che può essere facilmente proiettata sui medici curanti. La mancanza di conoscenza può facilmente essere indotto a sospettare che i medici abbiano sbagliato qualcosa, che si potesse scegliere una cura più efficace. Ma questa volta non è andata così. Al mattino, dopo qualche ora di sonno, Wilson, il figlio di Luisa, mi ha guardato fisso negli occhi con un’espressione di stima, e poi abbracciandomi con uno slancio spontaneo mi ha detto “grazie, Dottore”. Un riconoscimento che ha destato in me una forte emozione, la prova che era stato apprezzato lo sforzo, sia pur inutile, di una notte passata lottando per la vita di Luisa.

Ogni volta che un paziente del nostro ospedale muore, noi ripetiamo il rito dell’ultimo saluto alla persona che ci lascia dopo che abbiamo cercato di curarla: tutto il personale si raduna intorno al defunto, e si unisce ai parenti in una preghiera che affida la sua anima al Signore, padrone delle nostre vite. E’ una preghiera silenziosa, raccolta, sentita e sincera, con cui tutti, medici e infermieri, offriamo al Creatore il nostro sforzo, anche quando non ci rimane che restare ancora un momento con i parenti tristi per non aver ottenuto il risultato da tutti desiderato.

Ogni domenica alle 7:30 del mattino andiamo a messa nella chiesa parrocchiale di Anzaldo, e Norma, la nostra ‘piccola’ (che ora ha quasi 26 anni…) con Sindrome di Down si incarica delle letture e di fungere da puntuale e diligente chierichetta. Assonnati e spesso infreddoliti, i pochi partecipanti alla messa – che parlano solo il ‘quechua’, la lingua locale – difficilmente sanno comprendere il Vangelo, peraltro letto in spagnolo. Per favorire l’apprendimento da parte di Norma, le ho insegnato a scrivere ogni domenica un riassunto che contenga la sua interpretazione della pagina del Vangelo ascoltato nella messa, e spedirlo alle sue sorelle lontane, che per i loro impegni non sempre riescono a seguire la funzione domenicale.

Il Vangelo della scorsa domenica narrava dello scontro fra Gesù e i Farisei, che definisce ‘ipocriti’ perché si fissano sulle manchevolezze formali dei discepoli che non si lavano le mani e non seguono le regole tramandate dagli antichi, ma non curano il cuore, da dove invece provengono tutti i veri mali, quando è chiuso e trascurato. Norma su questa pagina del Vangelo ha scritto: “Il Vangelo di oggi è questo: se ti lavi le mani continuerai a sporcartele, ma il cuore se lo mantieni pulito rimarrà sempre limpido”. Mi è sembrata un’intuizione geniale, una di quelle cui può arrivare solo chi ha un cromosoma in più.

Il nostro atto di rimanere vicino a Luisa fino all’ultimo respiro, somministrandole i farmaci appropriati a nostra disposizione, facendo partecipare i figli e il marito ai suoi ultimi momenti, resistendo al sonno e alla stanchezza, mi è sembrato un comportamento doveroso che si avvicina molto a un gesto d’Amore, uno di quelli che – come dice Norma – aiutano a mantenere il cuore limpido. Questo viene riconosciuto, e passa da una persona all’altra come una trasfusione di Bene; la testimonianza di questo è quel “grazie Dottore” che anche di fronte al dolore e alla morte riconosce l’atto d’amore che è stato compiuto.

Dottor Pietro Gamba

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