Il mio ritorno ad Anzaldo

5 Aprile 2025

Sono Alba, la terza figlia di Pietro e Margarita. Sono passati sei anni da quando sono arrivata in Italia per intraprendere un nuovo percorso professionale. Erano due anni che non tornavo in Bolivia.

Anzaldo, il luogo dove le mie sorelle e io siamo nate e cresciute fino a quando siamo andate all’asilo è un posto che non lascia indifferente chi lo visita, poiché offre tanto dinamismo, improvvisazione e sicuramente spunti di riflessione.

Da quando ho memoria, le giornate sono sempre senza tempo e piene di sorprese. Lo stile di vita di mia mamma e mio papà continua a stupirmi per la dedizione e l’attenzione che mettono nel loro lavoro.

Il lunedì sera siamo arrivati ad Anzaldo carichi di viveri, che erano stati acquistati per la settimana a Cochabamba durante tutta la giornata. Dopo una giornata movimentata e un viaggio di un’ora e mezza, la stanchezza si è fatta sentire. Ma quella sera i miei genitori mi hanno colpita ancora una volta. Ho visto mia mamma sistemare i panini uno a uno delicatamente nel congelatore, dicendomi: “Non voglio che vengano schiacciati”. E mio papà, dopo aver scaricato e sistemato tutto, era pronto con il camice bianco per andare in ospedale a visitare i pazienti insieme all’infermiera.

Vorrei condividere quello che è stato un pomeriggio straordinario nella quotidianità dell’ospedale. Quel mattino aveva piovuto, e l’umidità aveva reso la terra morbida, facilitando la raccolta delle patate piantate nel giardino dell’ospedale.
Esther è venuta da me con un piccone, dicendo: “Vamos a cavar papa” (andiamo a raccogliere le patate). Non pensavo fosse una cosa seria.

Piena di pregiudizi sbagliati tendevo a resistere, perché non volevo sporcarmi i vestiti, non avevo le scarpe adatte, non volevo sentire la fatica di essere piegata. Tutti limiti che sono grata di aver messo da parte per poi vivere uno dei momenti più belli insieme a tutte le donne che lavorano nell’ospedale.

La composizione di quel pomeriggio sembrava un quadro impressionista: un cielo aperto dopo una mattina di pioggia, l’aria fresca e la luce perfetta che illuminava i personaggi del quadro, distribuiti su tutto il terreno. Avevano un’espressione furbesca, come chi inizia una competizione per dimostrare chi è più efficiente nel raccogliere le patate.

A ciascuno era stata assegnata una parcella (una linea) da scavare, e l’abilità e la rapidità delle donne del personale non sono passate inosservate. Si doveva muovere la terra con il piccone, da destra a sinistra e viceversa, cercando di non spezzare le patate con la punta del piccone.

Un lavoro molto faticoso e scomodo per la posizione che dovevi assumere. Dopo un po’ di tempo, le gambe e la schiena cominciavano a dare fastidio a causa della posizione scomoda. Inoltre, il piccone era pesante, la terra seccava le mani e finiva anche nelle scarpe.

Per la pausa, è arrivata Esther, che per festeggiare il mio arrivo ad Anzaldo ha preparato con grande entusiasmo la “wattia”, patate e mais cotti nella terra.

Questi momenti di condivisione, che spesso vengono accompagnati anche dal “pijcho” e dalla sigaretta, sono occasioni che uniscono le persone nei giorni passati insieme nell’ospedale. La condivisione non si limita solo al personale, ma si estende anche alle famiglie dei pazienti e ai pazienti stessi.

È nella condivisione senza aspettative che un gruppo diventa forte. Questo pensiero si è fatto strada nella mia mente non soltanto in Anzaldo, ma anche durante le mie esperienze di lavoro e amicizia in Italia: condividere è un atto di amore, offrire all’altro parte di sé, il proprio tempo, le proprie emozioni e i propri pensieri.

Dopo questa pausa, con l’arrivo del chirurgo da Cochabamba, l’ospedale è tornato alla sua quotidianità con due interventi chirurgici da realizzare. 

Il giorno dopo, è stata organizzata una giornata ancora più speciale: la visita a Teo sulle sponde della laguna di Wara Wara.

Teo è un paziente che è stato curato da mio papà, e da questo evento è nata una forte amicizia tra di loro. Lui e la sua famiglia possiedono una piccola laguna a oltre 4000 metri di quota dove allevano trote.
Siamo partiti da Anzaldo con parte del personale dell’ospedale – Dubeisa, Madeleine, mio papà, mia cugina Andrea e io – contenti di fare questa gita che rappresentava un premio per tutti.

Il patto con Teo era che noi avremmo portato il carbone, il gas per la cucina, la carne, il caffè, l’olio, la frutta, il pane, le bibite, l’insalata e tutti i condimenti per fare una grigliata sulla laguna, mentre lui sarebbe salito la sera prima per pescare.

A Cochabamba ci aspettava Sonia, la moglie di Teo, che ci avrebbe fatto da guida fino alla laguna, non facile da raggiungere. Una volta saliti sull’ambulanza, abbiamo iniziato a salire la montagna del Tunari su strade sterrate.

A metà strada, in una comunidad, c’era una mamma con cinque bambini, dai 7 anni in giù, una parente di Teo, che abbiamo invitato ad accompagnarci con i suoi figli a passare una giornata nella laguna. Così il nostro gruppo è inaspettatamente cresciuto, insieme alla nostra allegria ed entusiasmo.

Per segnalare il nostro arrivo, abbiamo suonato la sirena dell’ambulanza. Non era possibile arrivare con la macchina fino alla casa accanto al lago. Quindi abbiamo scaricato l’ambulanza e abbiamo proseguito a piedi, caricando le cose che avevamo portato.

Il forte suono delle sirene ha richiamato Teo e suo fratello, che ci hanno raggiunto con la canoa sulla riva del lago per darci una mano a spostare i viveri necessari per preparare il pranzo.

Contrariamente alle nostre aspettative, il tempo non è stato completamente favorevole: per tutta la permanenza ha continuato a piovere e a soffiare un vento gelido.

Una volta sbarcati, siamo entrati in un capanno per ripararci dal freddo. Sonia ha acceso un fuoco in un angolo per riscaldarci, fuoco che sarebbe stato utilizzato per la grigliata.

Il capanno, costruito in adobe (mattoni di fango compresso) era stato realizzato a poco a poco per soddisfare le necessità della famiglia ed era ancora da terminare. In effetti, durante le visite precedenti, mio papà ricordava che c’era solo il tetto. Ora il capanno ci riparava dal vento grazie alle pareti di lamiera che erano state aggiunte.

Il capanno era buio, ma c’era il bagliore e il calore del fuoco, e l’atmosfera festosa che ognuno di noi portava nel cuore.
Teo era incaricato di friggere il pesce, mentre sua moglie si occupava della carne sulla griglia. Qui si è scatenata una piccola competizione per vedere chi avrebbe finito prima di preparare il cibo.

Durante questa fase di preparazione, eravamo tutti seduti in cerchio, parlando e ridendo della situazione. Nella conversazione, i nostri ospiti ci raccontavano le difficoltà e la fatica di vivere così isolati, la difficoltà di passare le notti in quel capanno improvvisato, i costi elevati e i rischi che dovevano affrontare per proseguire la loro attività.

Sedersi a mangiare è un gesto semplice, quotidiano che quel giorno è stato un piccolo rito. Non c’erano piatti né posate per ciascuno, ma soltanto due cucchiai per l’insalata e vassoi contenenti pesce fritto, carne grigliata e patate bollite, collocati in mezzo al gruppo dei commensali per essere condivisi. Un pranzo abbondante e ricco, in cui noi tutti nutrivamo l’anima di emozioni e ricordi.

Sento di voler condividere la percezione del grande valore umano di tutte le persone che erano presenti in quel momento. Le condizioni esteriori non potevano non apparire disagiate, ma quella mancanza di “comodità” e “comfort” non ci ha minimamente impedito di sentirci in festa e di godere con gioia di quel momento vissuto insieme.  Pochi attimi in cui abbiamo apprezzato con pienezza tutto ciò che avevamo.

Quando qualcuno condivide con te il poco che ha, in realtà sta condividendo molto più di quanto possieda.

Il ritorno è stato pieno di pensieri impressi nella luce della strada, nella musica di sottofondo e nei paesaggi unici dai colori meravigliosi! Il cielo era attraversato da romantiche sfumature rosa, viola e blu, e nella pianura sottostante si stendevano le luci di una città immensa. Questo panorama immenso e la nostra giornata così intensa ma ormai presente solo nella memoria ci ha fatto di colpo capire quanto possiamo essere piccoli nello spazio e nel tempo.

Il tempo è la ricchezza più grande che possiamo possedere. Nell’ultimo giorno della partenza mi ha di colpo raggiunto il sapore della nostalgia. Ho capito a un tratto che, una volta tornata alla mia quotidianità di lavoro, avrei sentito che Anzaldo, la Bolivia, il mondo di Alba bambina, sarebbero svaniti in un ricordo ricco di amore, di passione, di pace interiore, di tanto tempo della mia vita e, indubbiamente, carico di un enorme patrimonio . emozioni.

Alba

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