Luca Bonalumi racconta la sua degenza in Anzaldo

15 Giugno 2015

Lunedì 1 giugno, alle ore 3:20 del mattino, dopo 31 anni di esistenza, ho scoperto che il mio corpo non è invincibile. Non è stato un filosofo a svelarmi il più grande dei misteri. Non è stato un prete. Nemmeno un dottore. E’ stato lui: il mio discreto involucro, così dormiente e così sveglio in quella notte di inizio giugno. Non descriverò qui i dettagli di quella che non è stata certo la più grande delle sofferenze umane, ma nemmeno un passeggiata. Ebbene, dopo una notte insonne ed un giorno sprecato ad attendere un miglioramento che, come il Papa nero, non è mai arrivato, consapevole grazie ad una semplice lastra del mio stato di salute piuttosto distante da ciò che gli esperti chiamano “benessere”, mi domando quale sia la struttura ospedaliera più adatta all’imminente ricovero. 

Ma non ho il tempo di pensare: il mio accompagnatore, tal Don Antonio, ha già deciso. Per non cadere nel tranello del racconto esagerato ad ogni costo, mi asterrò dal raccontare minuziosamente le seguenti due ore del nostro viaggio in fuoristrada, trascorse a pregare non Dio, non la Madonna, bensì padre Antonio, di dimezzare per lo meno la velocità in quanto, testuali mie parole, “Meglio morire del male che mi affligge che alla prossima curva”. Ma Don Antonio non ha orecchi se non durante i frequenti dialoghi con Dio, non certo per prestare attenzione ad un giovanotto spaventato più dalla velocità che non dal suo status di salute. E questo la dice lunga sulla guida del plurimiracolato conducente dalla folta barba. Ma, come dimostrato dal fatto che ancora posso scrivere, giungiamo ancora vivi in un paesino sperduto sulle montagne Cochabambine, un borgo chiamato Anzaldo. “Quindi, caro Don Antonio, siamo scappati dalla città con i migliori ospedali di tutta la Bolivia per raggiungere un paesino dove vivono più capre che persone per risolvere un problema che il medico di Cochabamba ha definito urgente?”. “Abbi fiducia giovanotto, grandi ospedali piccoli dottori”, mi risponde con la calma serafica di un cercatore di funghi.

Le ore che seguono l’arrivo ad Anzaldo si tingono di una tragicomicità che solo ora, seduto su una poltrona davanti ad una tazza di caffè, posso raccontare sorridendo ai grandi equivoci della vita. Immaginate un prete sulla settantina, dalla lunga barba ormai bianca, fradicio di sudore per il lungo e difficile viaggio, dirigersi in un pronto soccorso fianco a fianco ad un giovane trentenne in jeans e maglietta. Cari lettori, in quale direzione pensate si siano dirette immediatamente tutte le infermiere e il personale medico alla vista di questi individui? Ovviamente verso Padre Antonio: chi a consolarlo, chi a tentare di adagiarlo sul lettino, chi a chiedergli informazioni sul dolore che, in linea teorica, doveva affliggerlo. Don Antonio, senza fare una piega, si accende una sigaretta e borbotta: “Il malato sarebbe lui, ma se c’è un letto anche per me meglio, stasera penso di fermarmi”.

Poco dopo, finalmente, l’incontro con Pietro: anche costui, che nella vita tante ne ha viste, è allibito all’idea che il malato sia io. “Ma siete sicuri?” ci chiede. “Non è il momento di fare i giocherelloni” risponde la mia guida spirituale. A seguire vengo preso in cura da un equipe degna di un libro di Kafka, pur non avendo io mai letto un libro di costui e nemmeno di tanti, troppi, altri: il buon chirurgo mi visita con tal serietà da farmi credere per la prima volta di essere davvero un paziente; un dottore di origini svizzere di cui non farò il nome ironizza sul fatto che, tutto sommato, di polmoni ne ho due, considerazione che trovo al momento molto consolante; un’ infermiera mi parla in una lingua sconosciuta, scoprirò più tardi che si trattava della seconda lingua più parlata al mondo, tal “spagnolo”, Pietro Gamba mi sorride costantemente ma nella mia testa già si è fatta largo la più assurda delle paranoie: “Pietro stai attento a come mi guardi perché io so che tu sai che io so!”.

Sarà una reazione collaterale da Benzodiazepine? La situazione è talmente bizzarra che mi trovo davanti ad un grande bivio: rido o piango? Do un’occhiata a Don Antonio e non ho più dubbi: rido, ma forse nel frangente esagero. Verrò ammonito dal chirurgo che mi sta auscultando i polmoni.

Nel frattempo viene sera, poi notte, di nuovo giorno e di nuovo notte. Al sorgere del sole mi sveglio di soprassalto e mi guardo. Mercoledì 3 giugno, alle ore 8, ho capito che il mio corpo è soltanto un contenitore. Da tenere con cura, chiaro, ma senza esagerare. Oggi c’è, domani non c’è più.

Giovedì. Rinvigorito dalle cure, ho finalmente il tempo per guardarmi intorno. Niente mi stupisce particolarmente, eccetto un dettaglio, un gigantesco dettaglio. Io sono italiano, come Pietro. E, con quell’odioso metodo di ragionamento tipicamente occidentale che mi contraddistingue, posso affermare che qualche soldino, non troppi, per curarmi, posso permettermelo. Accanto a me c’è Jerardo, un campesinos. Ad occhio credo che abbia, forse, i soldi per comprare 4 garze non sterili. Nell’altra stanza c’è Francia, una donna con 6 figli da mantenere e un marito scappato chissà dove. Senza voler fare i conti in tasca a nessuno, credo che di garze non sterili possa permettersene 2, forse. In Bolivia la sanità è a pagamento, tutta. Sopravvive chi ha 4 soldi. Eppure… eppure queste persone sono qui, accanto a me, e proprio oggi sono state operate dalla gloriosa equipe di cui si parlava. Come è possibile? Chiedo a Pietro, che ancora non conosco abbastanza. Mi risponde con una facilità disarmante: “Tutti hanno il diritto ad essere curati, anche chi, in cambio, può darmi solo mezzo sacco di patate”. “Sì , ma Pietro, come fai a…??” Non ho il tempo per chiedere altro, Pietro è già tornato in sala operatoria. Chiudo gli occhi e mi riaddormento. Faccio strani sogni. Uno mi colpisce in modo particolare: c’è una lunga fila di persone in attesa e un personaggio in giacca e cravatta, credo fosse americano, pretende di passar per primo perché ha la cravatta. Effetto collaterale da antibiotici??

Lentamente il tempo scorre. Tra risate isteriche, notti di veglia e di chiacchiere con il drenaggio che per l’occasione ho chiamato “Venerdì”, pasti abbondanti e succulenti preparati dalla mitica moglie di Pietro, visite di amici e di Dottori svizzeri, italiani e boliviani, libri in spagnolo mai iniziati, pomeriggi a chiacchierare con infermiere di gran talento, commoventi serate a contare le stelle per concludere che no, non si possono contare, visite mediche puntuali e dettagliate del giovane Dottor Camillo (che ho soprannominato Don Camillo, ma lui non lo sa), film iniziati e mai finiti prestatimi da Luca, un volontario cinquantenne che ci vede lungo sul futuro del pianeta, passeggiate obbligatorie con le figliuole di Pietro, una delle quali in particolare, Norma, insiste per darmi la mano mentre mi accompagna (per la cronaca: rischieremo di cadere una decina di volte)… Ebbene i miei pochi giorni di degenza corrono fino al giorno del giudizio finale. “Guarito” dice il chirurgo. “Ma mia n’del co” aggiunge Pietro “. “E’ solo un giocherellone” è il parere di Don Antonio.

Domenica 7 giugno, alle ore 14, ho capito che il mio corpo è soltanto un insieme di cellule destinate a tornare, prima o poi, nel ciclo dell’azoto. Mentre mi rivesto rifletto su questa considerazione. Sono entrato in questo ospedale con un polmone e mezzo e un sacco di dubbi sul senso della vita. Ne esco con due polmoni e qualche dubbio in meno…


Luca Bonalumi

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