Porquè no vienes a visitarnos?

16 Ottobre 2013

“Porquè no vienes a visitarnos?”, le parole di Martin, un campesino di Challviri che vive e lavora nelle risaie della selva tropicale, il Chapare, a nord di Cochabamba.
A Pietro subito tornano alla mente le dodici ore di cammino che più di trenta anni fa lo hanno portato fino a Bateayoj, il rio dove ha pescato trote in compagnia di René, Agapito, Celso, immerso nella foresta, piante verdi e biancastre, mai esplorato prima e disabitato; prende allora la decisione di tornarci, Sabato 5 Ottobre, questa volta con l’ambulanza carica di tutto il necessario per un ospedale in movimento.

La nebbia nasconde le vallate e i paesaggi -che Pietro ci indica come incantevoli- lungo il cammino, da Challviri e la sua terra mora coltivata a patate, al vento e alle rocce nude di Escalon, la pescosa laguna Yanacaga.
Siamo costretti a spostare pietre, pestare e sporcarsi di fango, che non va più via dalle mani, per poter attraversare un fiume e nei punti in cui la jeep affonda, con le ruote che girano a vuoto, su di una strada aperta di tutta fretta, dove quindi manca il fondo.
Tutti i campesinos che lì vivono, o anche solo di passaggio, ci danno una mano, indispensabile, senza risparmiarsi, senza distinzione di genere.

A Bateayoj (si pronuncia Batiaioh) troviamo la luce del tramonto in mezzo alla fatica, il sorriso della comunità che ci accoglie, ci fa sedere intorno alle braci di un fuoco spento: i loro volti osservano parlare Pietro, Margherita, poi i tre volontari italiani e Daney, desiderosi di conoscere i medici lì arrivati dopo tutta una giornata, prima di farci accomodare per la notte nella scuola del paese, costruita con assi di legno degli stessi alberi frondosi che hanno lasciato spazio a campi e pascoli.
Di fronte tra le case uno spazio aperto, su un palo è issata la bandiera della Bolivia, la profondità dei monti sullo sfondo in ogni direzione.
L’aspettativa era di trovarsi di fronte a una comunità dove vivono mille persone, isolate e lontane tra loro; vediamo invece come la strada ha portato più consapevolezza, ma anche distrutto un locus -una volta- amoenus per far spazio alle esigenze di produzione dei campesinos, che arrivano lì attratti dall’humus fertile di quella terra, pur inospitale, spesso per fuggire dalla fame o dalle miniere.

C’è chi chiede medicine per i dolori di chi lavora duro nel clima umido e freddo, ci sono vitamine per i bambini, Pietro usa l’ecografo alimentato da un generatore e Margherita il microscopio per diagnosticare parassitosi.
Alel è una bambina di tre anni, piedi scalzi, capelli sciolti e arruffati, aspetta spaesata il suo turno: ha una malattia a una cornea, forse di origine traumatica, ha bisogno di cure specialistiche nella Città, ma per lei queste sono quasi inaccessibili; nella cultura della comunità la salute non sta al primo posto.
Impossibile, per chi è abituato ad avere l’ospedale a pochi minuti da casa, non sentire un forte senso di impotenza verso situazioni dure come questa.
Ciononostante l’entusiasmo dei campesinos è tanto, così come l’ospitalità: per pranzo le truchas erano squisite, di nuovo ci aiutano a guadare il fiume che separa il paese dalla strada e a caricare i bagagli sull’ambulanza.
Molti degli uomini del villaggio erano impegnati in una riunione, la comunità non è riuscita ad organizzarsi in tempo per il nostro arrivo, quindi non tutti sono riusciti a farsi visitare: ci chiedono di tornare, dicono che ci aspetteranno.

L’augurio è proprio quello che non rimanga un’azione isolata, ma quello di instaurare un rapporto duraturo, che coinvolga un bacino sempre più ampio di persone bisognose di cure.

Le pioggie non si fermano e le condizioni della strada sono peggiori del giorno prima: di nuovo la jeep sbanda, resta incollata, sprofonda nel barro, così come i nostri scarponi; mettiamo le pietre per poter procedere, ma dopo pochi metri ci fermiamo ancora.
È difficile anche solo camminare, alla fine si arrendono anche i nostri amici campesinos, dopo aver provato a trainarci con una corda.

Così, in mezzo alla selva –una volta abitata dal temuto orso Jukumari, ora in via d’estinzione- passiamo la notte nella jeep al buio, gomito a gomito.
Il sapore di un salame nostrano bergamasco, il rumore della pioggia incessante sul tetto e l’umidità fredda che trasuda dai finestrini.
L’atmosfera si riempie di pensieri, Pietro dà inizio a un Rosario: nel momento di preghiera ognuno scava nel profondo, ricordiamo i nostri cari, affidiamo le emozioni positive e negative della giornata.

Evelina, infermiera di Bergamo, resta muta: lei ragazza dinamica e precisa, è disorientata dai continui cambiamenti di programma, chissà se arriverò puntuale in aeroporto.
Sophia è commossa dalla calorosa accoglienza e dall’unione della comunità: solo grazie alla forza di questi uomini in grado di spostare a mani nude massi giganti siamo potuti arrivare fin dentro la selva.
Alberto si fà domande sullo stile di vita dei campesinos, così diverso.

Basta uno sguardo fuori dal vetro: la decisione è di procedere a piedi di buon mattino per lo stesso sentiero, per prima cosa per raggiungere la vetta del monte, unico punto in cui il cellulare può comunicare la nostra situazione a chi può venirci incontro.
Pietro scambia la coca e offre kuyuna (sigarette) ai campesinos che incontriamo lungo il cammino.
Loro mantengono il loro ottimismo, l’ambulanza verrà mossa presto, qualcuno arriverà a prenderci: veniamo da un mondo in cui l’organizzazione è fondamentale, lontano da questa dimensione di quotidiano sforzo, precarietà, improvvisazione, che ora dobbiamo vivere, magari capire, di cui fidarsi per forza.
L’emozione di un pranzo condiviso con due cholite che ci guidano sui sentieri che tagliano monti e valli: è questo il significato della sama in Queechua.

Riso cotto sul fuoco, patate, noi offriamo un pezzo di formaggio Grana tagliato religiosamente nel silenzio della fatica, prima di riprendere la marcia fino all’arrivo del fratello di René, Primo, gioia e gratitudine per lui che ci riporta a Cochabamba quella notte.

Siamo tutti stremati, dopo otto ore di cammino, ma felici: non ci portiamo in città solo il Chulo di donna Modesta, una riga al giorno, dice.
La sensazione è quella di aver assaporato la “vera” Bolivia, attaccata alle tradizioni, alla Pacha mama, la Madre Terra -anche se i disboscamenti sono gli inevitabili segni del progresso che lentamente arriva anche qui-, al duro lavoro nei campi, la giornata che inizia e finisce con la luce del sole, i ritmi di semina e raccolta scanditi dalla luna, il tempo che si dilata e non è sottomesso all’orologio, la semplicità e l’umiltà degli ultimi, che hanno conquistato Pietro all’inizio del suo percorso in Bolivia, e che sicuramente han lasciato una traccia indelebile in noi.

Alberto e Sophia, studenti di Medicina

Altri Racconti

Auguri di Buona Pasqua 2024
Auguri di Buona Pasqua 2024

Il dottor Pietro Gamba e la sua famiglia augurano a tutti una Buona Pasqua, ringraziando al tempo stesso coloro che hann...

Solidarietà a confronto
Solidarietà a confronto

Due racconti di solidarietà a confronto: la comprensione del lavoro e della fatica del campesino attraverso la cura del...

Viaggio in Italia 2023
Viaggio in Italia 2023

Dopo le tre settimane del mio viaggio di quest’anno in Italia, desidero condividere le emozioni che mi hanno ricaricat...

Bottom Image