“Quello che fai, fallo bene.”

23 Marzo 2017

Così scriveva Santa Chiara in una delle sue lettere indirizzate alla Beata Agnese. Ma lo stesso mi ha più volte ripetuto il Dott.Pietro Gamba in queste prime settimane trascorse presso il Centro Medico Quirugico di Anzaldo, che porta il suo nome. Che si tratti di drenare la ferita infetta di un paziente, di scattare una radiografia, o di riparare una porta, ogni gesto, per quanto piccolo ed insignificante possa sembrare, viene pensato e realizzato con cura e attenzione.

Il Dott.Gamba qui ad Anzaldo svolge un servizio pensato e progettato come lo è ogni opera importante. Occorrono occhi aperti per scorgere le necessità delle persone, mani disposte a dare , braccia robuste per lavorare e soprattutto una testa che ragiona e coordina. Dopotutto Pietro Gamba è l’esempio che per mettersi al Servizio degli altri, (dove la parola Servizio è intesa nella più alta accezione del termine), bisogna mettere in conto una preparazione specifica, un’attrezzatura adeguata ed una solida formazione preliminare.

Un esempio di come questo Servizio sia preparato e svolto bene bussa alla porta dell’ospedale un tranquillo venerdì pomeriggio. È un bambino intorno ai dieci anni, con grandi occhi scuri e capelli neri corvino. Indossa una camicia a quadri azzurra impolverata e ai piedi porta delle “abarcas”, una specie di sandali ricavati da vecchi copertoni di automezzi. Lo accompagna un uomo dall’aspetto trasandato ed in abiti da lavoro, che da subito crediamo essere il padre del ragazzo.

Pietro si rivolge loro in Quechua, la lingua dei campesiños. Scopriamo che il bambino ha in realtà 14 anni, e si chiama Pedro. L’uomo che lo accompagna non è il papà, ma lo zio materno. Il padre del ragazzo ha infatti abbandonato la famiglia anni prima e da allora Pedro vive solo con la madre inferma, che non ha potuto accompagnare il figlio in ospedale.

I due entrano silenziosamente nell’ambulatorio. Il braccio di Pedro è avvolto in uno straccio sudicio, che il ragazzo ha legato intorno al collo. È caduto a scuola giocando con i compagni, ci spiega lo zio e, rialzatosi dalla caduta, non è stato più in grado di muovere il braccio.

Sono ormai passati ben quattro giorni dalla fatidica caduta ed è impensabile, mi dico,che non abbiano consultato prima un centro medico. Ma la realtà di questo bambino è ben lontana da quella europea, cui sono abituato. Pedro e suo zio provengono da un villaggio sperduto nella vasta provincia del Nord Potosì, luoghi in cui non vi sono strade, ma solo polverosi sentieri non accessibili alle automobili. I due hanno camminato per due giorni tra fango e sassi prima di giungere in prossimità di una strada trafficata. Lungo il loro cammino avranno certamente incontrato altri centri medici, ma non si sono fermati. Determinati fino in fondo a consultare l’ospedale della fondazione, hanno continuato il viaggio con l’unico “mezzo di trasporto” in grado di permettersi: i loro piedi.

Fortunatamente sul loro cammino hanno incontrato un camionista dal cuore genereoso che, trasportandoli alle porte di Anzaldo, ha posto fine alla loro lunga Odissea.

Eseguo un rapido esame dell’avambraccio, e con Pietro, decidiamo di scattare due radiografie per accertare la presenza di eventuali fratture. Porto dunque Pedro in radiologia e con attenzione gli posiziono il braccio sulla cassetta radiografica, cercando di non risvegliare il dolore. “Adesso ti scatto una foto, non ti muovere” cerco di comunicargli in uno spagnolo ancora molto stentato mentre erogo i raggi. Le radiografie, ahimé, parlano chiaro e non serve aver studiato radiologia per capire che le ossa sono entrambe rotte in più punti.

In attesa del parere di uno specialista in traumatologia, decido di esaminare meglio il braccio e di immobilizzarlo. Sotto la benda esterna intravedo una steccatura realizzata con pezzi di bambù, fogli di carta e, a contatto con la pelle, uno strato di fango rappreso. Il tutto è tenuto insieme con una specie spago avvolto attorno al braccio in modo del tutto casuale. Totalmente impreparato ed incredulo fisso quella medicazione da terzo mondo con aria perplessa. Il mio ignorante scetticismo viene però subito messo a tacere. Infatti per quanto realizzata con mezzi di fortuna, quella steccatura rappresenta un valido rimedio per il braccio infortunato, in particolare proprio per la presenza di quel fango che, di consistenza simile all’argilla, ha aiutato a ridurre il dolore e l’infiammazione durante i lunghi giorni di cammino.

Superata la sorpresa ed immobilizzato l’arto con mezzi più tipici alla medicina occidentale, Pietro giunge con notizie del traumatologo: sarà necessario intervenire chirurgicamente per stabilizzare le fratture. A queste parole però, lo zio di Pedro sussulta ed il suo sguardo si oscura. Le operazioni chirurgiche, si sa, costano caro, davvero caro.
Pietro però, è perfettamente cosciente della realtà in cui vive la popolazione del campo, conosce i bisogni dei campesiños ed anticipa i loro pensieri. Riesce così a rassicurare lo zio: i soldi che raccoglierà saranno sufficienti a coprire l’intervento e l’intera degenza. Lo zio accetta: è perfettamente consapevole che un simile intervento, eseguito presso altri centri medici, avrebbe richiesto almeno otto volte tanto. Per quanto il prezzo dell’operazione sia decisamente ragionevole, mi dice Pietro, lo zio dovrà comunque attingere ai suoi pochi risparmi (sempre che ne abbia) per permettere al nipote di operarsi.

Il giorno dell’intervento Pedro entra in sala operatoria osservando incuriosito le grandi lampade alogene che pendono dal soffitto. Non sembra per nulla preoccupato dalla chirurgia cui deve sottoporsi o forse, mi dico, non sa cosa lo attende. Un’infermiera lo invita gentilmente a stendersi sopra di lo stretto tavolo nero, mentre un’altra gli fa scivolare sul petto i lunghi e sottili cavi per il monitoraggio. Accanto a lui, il traumatologo con una mascherina ed un lungo camice verde armeggia pinze, forbici, viti ed altri temibili strumenti metallici. È davvero difficile immaginare cosa debba aver pensato questo giovane campesiño, per la prima volta spettatore di tutti quei rituali di sala che per noi medici sono prassi comune. Ecco che l’infermiera gli si avvicina ancora, questa volta armeggia con un piccolo tubo in plastica che entra nel suo braccio. Pedro la fissa, ma i suoi occhi si fanno sempre più pesanti e la vista annebbiata. In pochi secondi, il ragazzo cade rapidamente in uno stato di incoscienza. Si risveglierà circa tre ore dopo nella sua stanza senza ricordare nulla dell’operazione, e di quei freddi ferri e viti appuntite che ora tengono insieme le ossa del suo braccio. Lo dimetteremo tre giorni dopo l’intervento, con il braccio rimesso a nuovo, pronto ad affrontare i lunghi giorni di viaggio che lo separano da casa.

Penso a Pedro mentre scrivo la sua storia, una storia da terzo mondo come molte altre qui ad Anzaldo. Penso alle sue abarcas di gomma ed alla steccatura realizzata con legno e argilla.
Rivedo i suoi occhi scuri ed eloquenti, occhi che prima di questi giorni non avevano mai visto un’ospedale, né dottori, né medicine. Probabilmente in questo momento, Pedro marcia nel fango per raggiungere il suo lontano e disperso villaggio del “campo”. Accanto a lui cammina lo zio che gli ha salvato il braccio. Lo zio che gli è stato vicino e che ha confidato nel Servizio svolto da Centro Medico Quirurgico di Pietro. Servizio che, lo direbbe anche Santa Chiara, è davvero fatto bene.

Dott. Saul Radaelli

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