Solidarietà a confronto

29 Gennaio 2024

Zappare la terra per capire il lavoro del campesino

In un pomeriggio di sole, in cui gli impegni in ospedale hanno dato una tregua sufficiente, con l’intero personale ci siamo radunati sul nostro piccolo terreno coltivato a mais e patate, per zappare la terra e strappare con le mani le erbe infestanti, come ogni contadino fa per tutta la vita per curare il suo raccolto.

La spinta per organizzare questo appuntamento era venuta proprio dal nostro personale, pressoché tutto di origini contadine; è stato bello vedere persone che oggi sono professionisti tornare a contatto con la terra, ricordando il tempo in cui aiutavano la famiglia nel duro lavoro nei campi. Ed è stato un po’ lo stesso anche per me, che mi sono ritrovato immerso nei ricordi infantili di quando accompagnavo mio papà e mio nonno contadino, ed entrambi stavano ore e ore a zappare il campo di granoturco.

A cuciniere e lavandaie si sono aggiunte con naturalezza e senza sentirsi sminuite le infermiere e le due civiliste arrivate dal Celim Bg, che vedendoci piegati a zappare la terra non si sono tirate indietro, assumendosi l’incarico di ripulire due file del seminato. Io pensavo che sarebbe stato un impegno da poco, ma mi sono dovuto ricredere dato che portarlo a termine è costato due ore di impegno, fatica e sudore.

Osservavo le ragazze che con movimenti esperti rimuovevano le erbacce e con delicato rispetto, quasi con una carezza, ricoprivano di terra le radici dei germogli, quasi parlando con ciascuno di loro mentre li liberavano delle presenze indesiderate; al confronto i miei interventi erano molto più affannati, e dopo pochi colpi fin troppo violenti per rompere le zolle ero costretto a fermarmi per riprendere fiato, controllando intanto quanto terreno avevo dissodato e quanto ancora me ne restava.

Intanto mi si erano formate dolorose vesciche alle mani, pegno inevitabilmente pagato alla poca pratica nel maneggiare gli attrezzi del mestiere di chi lavora la terra.

Il mio pensiero andava al duro lavoro dei campesinos che ogni giorno, sole o pioggia, caldo o freddo, sazi o a stomaco vuoto con l’unico sollievo di un po’ di coca, sopportano questo tipo di lavoro per l’intera esistenza, attendendo poi un raccolto comunque incerto, dipendente dai capricci del tempo che in un attimo può compromettere il frutto delle fatiche di tanti giorni.

Facendo il confronto fra noi sanitari e i campesinos, mi è apparsa alquanto ingiusta la differenza fra il personale dipendente che ha il salario garantito ogni fine mese, e chi invece dipende dalla terra, una padrona molto meno equa e puntuale nel riconoscere e compensare il lavoro fatto.

Questo sano ‘assaggio’ della fatica che costa il lavoro di rendere produttiva la terra, mi ha anche suggerito il paragone con la nostra attività in ospedale, con i costi che il mercato impone a chi ha bisogno di ricorrere alla sanità. Penso alle difficoltà che un campesino è chiamato ad affrontare quando lui o un suo famigliare si ammala, costringendolo a cercare le necessarie risorse economiche, con lo scarsissimo margine che il lavoro di un anno gli lascia dopo aver provveduto alle spese indispensabili come l’alimentazione, l’abbigliamento e l’istruzione dei figli.

La terra è spesso ingenerosa anche se ci sostenta, l’economia mondiale per come è da noi organizzata non rispetta la fatica di tante popolazioni, costrette a subire un’ingiusta distribuzione delle risorse.
Forse è proprio questa consapevolezza che è alla radice del mio sentimento profondo di rispetto e ammirazione per il campesino, perché quando gli stringo la mano, non curata e nemmeno sempre pulita, la sento indurita e callosa per il tanto lavoro che svolge anche a vantaggio mio e di tutti noi.

Quando una di queste persone sconosciute e che nessuno considera viene in ospedale, e ci racconta i suoi guai di salute, mi sento inadeguato a dargli l’aiuto che meriterebbe, consapevole che non siamo noi ad aiutare lui, ma il contrario: è lui che ogni giorno, con il suo costante e onesto lavoro, dona a noi aiuto e alimento.

Il dramma di Alejandra e l’amore di una madre

Alejandra è arrivata da noi con i terribili segni di una patologia sconosciuta che in due settimane le ha mummificato le mani, diventate nere come il carbone, colpendo anche una parte dei piedi. Lei è una ragazza disabile con un ritardo mentale, non autosufficiente; non sa leggere, sa scrivere solo copiando e senza capire il contenuto.
Subito mi ha colpito il pensiero del suo dolore, incompreso dai dottori, ma avvertito in modo fin troppo intenso da sua mamma, che da vent’anni la segue.

Le mani e parte dei piedi dovranno essere amputate, togliendo così alla ragazza quel poco di indipendenza che le sue condizioni precedenti le lasciavano; da sola non riuscirà più a vestirsi, a mangiare, a camminare e a soddisfare i bisogni più elementari, per tutto dovrà ricorrere ogni volta alla mamma o alle sorelle.
In ospedale Alejandra è rimasta per poco tempo, sufficiente però perché sua madre ci desse una grande lezione di affetto e di disponibilità per la figlia disabile, colpita ora da questa ulteriore e imprevedibile avversità della vita.

Lei, la mamma, non abbandona per nessuna ragione la figlia, anche se questo comporta la rinuncia completa alla propria libertà personale, alle proprie aspirazioni individuali. Un amore di madre più forte di tutto, che coinvolge chi l’avvicina, dandogli una formidabile lezione di vita.

Per lei, madre di altre due figlie sane, Alejandra è l’Angelo che il Signore le ha donato, e le dedica i suoi giorni, senza mai farsi sfiorare dal pensiero che questo onere sia una punizione per lei.

Le pesa il dolore della figlia, che solo lei riesce a calmare quando reagisce gridando all’avvicinarsi di un’infermiera. Alejandra non vuole restare in ospedale da noi, ha sofferto già troppo. Nei suoi precedenti ricoveri ha accumulato angosce e ricordi traumatici di dolore non curato, di diagnosi incerte, di sopportazioni inutili per cure non riuscite. 

Così sua madre l’ha riportata a casa, stremata dalle reazioni della figlia che voleva a tutti i costi tornare dove sarebbe stata di nuovo nel proprio ambiente con le sorelle, dove si sarebbe potuta alimentare senza vomitare, riprendendo peso per poi poter sopportare gli interventi per le amputazioni.
Come davanti al campesino, anche davanti a un’ammalata come Alejandra mi metto in ginocchio, come se fosse giunto in Ospedale un angelo con le stigmate cicatrizzate e mummificate, portando in sé tutto il dolore provato dal Cristo inchiodato alla croce.

E anche in questo caso il confronto diventa naturale. Che cosa può fare un medico, se non inginocchiarsi riverente di fronte all’immenso dolore di Alejandra e di sua madre? La giovane ci diceva: ‘Non voglio più vedere mia mamma soffrire per me’. Un dolore filiale che si assomma a quello fisico, e che la morfina non può placare.

Al confronto, i nostri piccoli turbamenti quotidiani sono poca cosa, e questo raffronto deve rafforzare la determinazione di aiutare senza esitazione, con un buon gesto di solidarietà.

Questa madre è d’esempio, perché da anni nutre e segue con pazienza la sua creatura, senza abbandonarla un minuto, e senza essere aiutata da nessuno. Ha speso tutto quello che aveva, ma non si arrende e si affida con fede alla vita che continua.

Riverenza e rispetto per questi ‘segni’ portati da persone di esemplare statura morale, che veniamo a conoscere non attraverso i ‘social’ ma grazie alla Provvidenza, che ce li mette davanti per smuovere i nostri cuori perché non smettiamo di imparare dagli altri e di impegnarci per loro.

Dott. Pietro Gamba

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