Lettera di Irene, medico volontario ad Anzaldo

5 Giugno 2018

A malincuore è giunta al termine questa esperienza ad Anzaldo, il tempo è proprio volato!

Tutto è iniziato quasi quattro mesi fa, con l’idea di un grande viaggio in queste terre sudamericane. Anche io appartengo a quella cerchia di persone che hanno il privilegio e l’assurda esigenza di viaggiare, in parte per fuga da realtà che a volte opprimono, in parte per ricerca di nuove forme di energia, esteriori ed interiori e di felicità.
Non è sempre facile viaggiare, a volte si attraversano tanti luoghi senza conoscerli davvero, in maniera disattenta e confusa, come se fossero svuotati dalle persone che ci vivono.

Per me l’esperienza in Anzaldo ha rappresentato prima di tutto questo: la possibilità di conoscere e di instaurare un contatto con le persone di qui, grazie all’inserimento in una realtà, quella del Centro medico chirurgico, affermata e riconosciuta per i suoi valori.
È stato bello rendersi conto che alcune volte le distanze culturali (e non solo) si possono ridurre attraverso gesti semplici. La condivisione di un pasto, la narrazione di storie (di amori, di avventure e di disavventure), il camminare in fila indiana su un sentiero che porta a luoghi inesplorati e meravigliosi.

Forse non l’ho espresso con sufficiente forza, ma mi ha fatto molto piacere essere “trascinata” alle riunioni della comunità anzaldina. Impresa ardua capire qualche parola di quechua, ma già il fatto di esserci è stato importante.
Essere medico vuol dire anche questo: fare parte di una collettività che interagisce e discute, che cerca di dare delle risposte a determinati problemi. Mi sono resa conto che ci sono condizioni che qui incidono profondamente, anche sullo stato di salute delle persone: il grado di istruzione, il lavoro, l’alimentazione, le strade, le condizioni abitative, il grado di coinvolgimento e partecipazione alla vita di comunità.

Fin dal primo giorno ho sentito forte un senso di inadeguatezza e di arroganza nell’arrivare ad Anzaldo, con la mia formazione medica all'”occidentale” (se così si puo dire), senza parlare una parola di quechua e senza sapere nulla di queste culture e di questi popoli. La medicina non è universale come si potrebbe pensare.

Certamente si cerca di rispondere ad un determinato problema di salute con gli stessi trattamenti in qualsiasi luogo, ma ci sono contesti in cui le scelte diventano più difficili e le implicazioni sono più numerose e gravose. Mi sono resa conto che ogni decisione nel Centro è fortemente ponderata, ogni scelta deve essere soppesata in base a risorse, possibilità, distanze, fattori sociali e culturali.

Non che rimpianga la medicina labirintica, iperspecialistica e di linee guida a cui sono abituata, ma quanto è difficile “scegliere” nella realtà di Anzaldo! Ricordo di una ragazza, quasi a conclusione della mia esperienza, giunta all’ambulatorio con un quadro di osteomielite, un’infezione dell’osso localizzata alla gamba, nel suo caso gravemente trascurata. Nella mia testa sono risuonate così tante domande…questa ragazza si può permettere le lunghe cure e gli interventi a cui deve essere sottoposta? Questa ragazza in che comunità vive e quanto dista da qua? Questa ragazza può permettersi di interrompere il lavoro? Questa ragazza ha un contesto familiare che la sostenga in questo lungo percorso di guarigione? Questa ragazza ha fiducia nel percorso di cura che le stiamo proponendo?

Ma avanti tutta, una possibilità c’è, con la tenacia, la determinazione e la forza che ho potuto conoscere e prendere come esempio, di Pietro e di tutto il suo team!

La Bolivia che ho intravisto io è senza dubbio molto diversa da quella di tanti anni fa. Probabilmente sono aumentati i gradi di complessità e le contraddizioni. I servizi pubblici stanno crescendo, ma ancora non sono sufficienti per rispondere a tutti i bisogni delle comunità. Per il povero nulla è cambiato. Aumenta l’accessibilità telematica al mondo esterno tramite internet e cellulari, ma quella concreta, fatta di strade e di viabilità, rimane con gli stessi problemi di percorribilità. Aumentano le contraddizioni anche in termini di malattie, come ho potuto osservare seguendo le attività di consulta. Problemi di denutrizione si affiancano a problemi di sovrappeso, due facce, a mio modo di vedere, della stessa medaglia di povertà.

Eppure adesso, come allora, c’è un fortissimo bisogno di persone, competenti e motivate, che decidono di impegnarsi e spendersi per gli altri in questi posti isolati, lontano dai lussi e dalle comodità cittadine. Scegliendo una vita tranquilla, fatta di condivisione, di rapporti, di famiglia e di impegno, senza troppe distrazioni. C’è bisogno di una grande sensibilità, di rispetto e di umiltà, nonostante le differenze culturali, linguistiche ed identitarie. E per me il Centro è un forte esempio di tutto ciò.

In fondo, nel mio piccolo, ho capito di aver avuto il grande privilegio di studiare e di affrontare un percorso arduo e difficile, portando avanti ed affermando valori ben diversi dal desiderio di carriera e di guadagno. I valori del rispetto e della solidarietà. E questo non è possibile in tutti i luoghi. Non vedo l’ora di buttarmi e metterci del mio, in qualsiasi contesto e occasione la vita mi offrirà.
Ringrazio di cuore Pietro e tutta la sua famiglia per questa bella ed intensa esperienza. Forse il mio sguardo è stato troppo fugace e i miei giudizi troppo netti, ma attraversando questa realtà so che un piccolo ma saldo cambiamento si è attivato. Vi porto con me.

Irene

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