Misteriosi Misteri

11 Maggio 2020

Riesco ancora a sorprendermi, a emozionarmi, a sentirmi profondamente coinvolto, quando una volta di più mi rendo conto che il risultato raggiunto va oltre le nostre limitate capacità, è quasi da miracolo. La fusione delle forze di diverse persone – preparazione, insistenza, passione, esperienza accumulata negli anni – nel momento della necessità si rivela strumento prezioso per arrivare a segno.

Oggi, appena concluso un intervento chirurgico di appendicite acuta, ci giunge la richiesta di intervenire su un paziente in piena emergenza per addome acuto. L’ambulanza prevede di arrivare in un’ora. Viene bloccato il chirurgo, che dopo l’appendicite risolta era pronto per ritornare in città, e si scarica dall’ambulanza un paziente in stato di choc.

Si chiama Anacleto, è un uomo sulla cinquantina, ed è accompagnato dal figlio. La diagnosi è facile, si tratta di un volvolo intestinale, una patologia molto diffusa nella nostra area, causata dalla “vinchuca”, un insetto che introduce nel sangue un parassita che blocca l’intestino; questo, non avendo più la normale peristalsi per scaricare feci e aria, si gonfia fino a torcersi e causare l’occlusione.

Si tratta della più comune complicazione della malattia di Chagas, qui da noi endemica. Per risolvere questo doloroso sintomo, dapprima si prova a scaricare il contenuto intestinale con una sonda rettale. Se questo non funziona, non resta che la soluzione chirurgica.

Si procede con l’introduzione di una sonda rettale per sfiatare l’aria putrida accumulata e ritenuta nel colon; attraverso la rettosigmoidoscopia si vede la mucosa del colon che da rosacea è diventata nerastra per la necrosi. E’ un brutto segno, la mancata irrorazione sanguigna ha causato un danno irreversibile al colon che impone un immediato intervento per salvare il paziente. Anacleto, in preda a lancinanti dolori, è all’estremo della sopportazione e presenta sintomi di intossicazione per le molte tossine che il suo intestino, bloccato e sofferente da tempo, ha liberato nel sangue. Con la speranza di essere ancora in tempo, l’intervento consiste nella colostomia: rimuovere la sezione compromessa, annullare lo scarico anale e abboccare la parte funzionante dell’intestino alla parete addominale, fabbricando uno scarico artificiale da raccogliere in un sacchetto.

Rosendo, Il figlio di Anacleto, racconta che il padre ha iniziato il giorno prima ad accusare dolori terribili per la distensione addominale. Lui, che abita a un’ora e mezza dai genitori, è partito per raggiungere la casa paterna che si trova sulla riva del fiume, in un posto isolato, raggiungibile solo a piedi. Una volta giunto, sua mamma lo informa che il padre ha deciso nonostante i forti dolori di raggiungere la figlia che vive a circa due ore di cammino, sulle pendici alte della montagna. Si tratta di una regione selvaggia, inospitale e arida, con una vegetazione scarsa e fatta di arbusti spinosi, dove vive il puma. Mentre con il cuore in gola affronta la salita, Rosendo apprende che in quei posti una giovane donna è appena morta per il “mal parto”: dopo aver dato alla luce il bambino l’emorragia non si è arrestata, e senza nessuna possibile assistenza l’ha lasciata lentamente senza vita.

Nei pensieri del giovane regna l’angoscia, senza sapere se i suoi sforzi saranno sufficienti per salvare il padre è comunque determinato a fare di tutto per vincere la scommessa con il destino. Incontra finalmente il padre che, stremato dai dolori, non può reggersi né camminare; la più vicina strada accessibile ad una ambulanza dista circa tre ore e mezzo anche prendendo impervie scorciatoie attraverso i monti. I due figli usano cordicelle, coperte e due pali per improvvisare una rustica barella che in lingua quechua si chiama “kallapu”.

Anacleto è portato a spalla sul kallapu da quattro vicini volenterosi, che dapprima affrontano la facile discesa; ma poi si devono inerpicare su una salita difficile e faticosa che si trasforma in una via crucis, prima di arrivare finalmente alla strada, e al punto in cui si era concordato telefonicamente l’incontro con l’ambulanza. Non appena raggiunta l’autolettiga Anacleto, stremato dal dolore, perde conoscenza. Serpeggia il timore che lo sforzo sia stato vano, che la vita lo stia abbandonando come accaduto alla donna del mal parto. Rosendo teme che la sorte beffarda gli faccia perdere la scommessa con il destino proprio mentre il padre viene trasferito dalla rustica barella all’ambulanza. Questa parte a tutta velocità, senza perdere tempo e senza nessun trattamento per alleviare il dolore. Il nostro ospedale, che a velocità normale dista due ore, è raggiunto in metà tempo.

Racconta il paziente che sono stati lunghissimi terribili momenti, in cui ha pregato per la sua vita e perché il dolore gli desse tregua, desiderando solo arrivare a destinazione per sapere se vi era una possibilità di salvezza .

Norma, l’ultima mia figlia che ha la qualità di saper coinvolgere tutti perché ha qualcosa in piú (oltre al cromosoma 21 in sovrannumero), è molto meticolosa quando fa programmi. Attualmente, alle cinque di ogni pomeriggio (ora locale, che corrisponde alle undici in Europa) puntuale all’appuntamento segnalato dall’allarme del suo cellulare, effettua una videochiamata da Anzaldo per riunire tutta la nostra famiglia, comprese Silvia in Spagna e Alba in Italia, per recitare insieme il rosario del mese di maggio, tanto più sentito in tempi di coronavirus. Un appuntamento che a me serve per riscoprire le tradizioni custodite nei ricordi infantili e per seguire la raccomandazione di papa Francesco.

Per questa preghiera, diventata per i più inusuale, Norma invita anche il chirurgo dott. Ramirez a unirsi alla nostra famiglia; ma, proprio mentre ci si prepara con la corona del rosario, l’arrivo dell’ambulanza ci distoglie dal raduno spirituale per farci ripiombare nella dura realtà della sofferenza e mettere alla prova la nostra preparazione professionale. I convocati da Norma pregheranno insieme per noi e per il paziente, sostenendoci in questo modo nella nostra azione di salvataggio.

Vedo Anacleto quasi agonizzante, settico e stremato da circa 24 ore di sofferenze d’inferno. L’intervento chirurgico dura un’ora e mezza, un terzo del tempo occorso ad Anacleto per arrivare da noi, pur prendendo scorciatoie conosciute solo da lui e dai suoi famigliari in quei monti lontani dal mondo civilizzato. Decisivo è stato anche l’aiuto dei suoi vicini che, con fatica estrema, non l’hanno abbandonato a un sicuro destino di morte.

Si toglie la parte di intestino nera, putrida e nauseabonda, i monitor tornano a segnare valori normali donandoci un sospiro di sollievo e la gioia della vittoria.

In serata, il premio è il sentimento di fratellanza generato dalla consapevolezza della buona azione fatta insieme, che ci carica di emozioni positive, condivise da tutti quanti hanno contribuito al buon esito dell’intervento. Anche chi ha recitato il rosario durante l’intervento ha condiviso la nostra stessa preoccupazione. Al momento di trasferire sul lettino operatorio quel corpo quasi senza vita, nessuno poteva prevedere come sarebbe finita.

Dopo l’intervento per tutti è stato come respirare aria nuova, benefica e pura che risana l’intossicazione dei polmoni. La gioia del risultato è tangibile e visibile in tutti, come quando dopo la tempesta spunta un bel sole.

Voglio rendere tangibile la mia gratitudine con un gesto concreto: premio il chirurgo, il Dr. Antoine che ha aiutato, le infermiere Licenciada Elisabet, Yersenia e Liset che devono ancora sobbarcarsi il turno di notte, assistendo Anacleto e gli altri pazienti. Ringrazio la moglie Margarita per la pastasciutta serale e a tutto il personale, prima di dormire, porto un cioccolatino arrivato dall’Italia, e riservato ai momenti di festa.

L’emozione del risultato di oggi ripaga tutti, e me in particolare. Il pensiero prima di addormentarmi è per Anacleto, una persona venuta da posti sconosciuti, salvato in extremis perché ha creduto con insistenza in noi e nel nostro operato, dandoci la sua piena fiducia. E poi, i miracoli non siamo noi a farli, non siamo noi i migliori; su tutti regna sempre il Mistero grande di Dio che è l’Unico padrone della Vita di tutti noi. Anche quello del Rosario recitato in contemporanea all’azione rimane, per chi crede, un Suo mistero.


Dott. Pietro Gamba

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