Non sarà solo un’avventura

15 Ottobre 2013

Un incontro sognato, desiderato, preparato per visitare nuovamente i posti che rimangono nei miei ricordi giovani di trent’anni fa, quando la selva era di soli fiumi e di fitta vegetazione.
Mi hanno detto che in quei posti, è arrivata la strada già da due anni e che la zona è abitata da nuovi ‘colonizzatori’ che si sono improvvisati e avventurati per vivere esponendosi ai tanti rischi e senza nessuna assistenza medica.
Un conosciuto amico campesino, dopo aver fatto curare la sua bambina in Anzaldo, mi ha invitato a far loro una visita nei posti isolati della selva.
Dopo la decisione, eccoci in marcia per una piccola campagna medica insieme a mia moglie Margarita, due volontari italiani del 5º anno di medicina (Alberto e Sophia) e con Evelina (infermiera bergamasca) che rafforza il gruppetto dei volontari insieme a Daney una nostra infermiera.

La strada dopo averci fatto passare oltre i quattromila metri superando i passi alti, ci presenta panorami di monti rocciosi e lagune nei diversi tratti che si aprono alla fitta nebbia e pioggia.
Quando inizia la discesa nella selva, il tracciato diventa impraticabile per il fango sempre più molle, appiccicoso che ci sprofonda per la mancanza di un solido fondo stradale, insidioso, viscido e oleoso per la costante pioggia che, alimentando i torrenti, taglia letteralmente la strada.
Per continuare dobbiamo riempire con pietre la parte mancante e crearci un improvvisato e rischioso passaggio.
Arriviamo con molte ore di ritardo. Davanti a noi appare come un quadro una verde valle, schiarita dalle nebbie che si alzano.
Non riconosco il posto dei miei ricordi giovanili fatto di alberi coperti da muschi e liane che incutevano una strana soggezione come l’aspetto di un paesaggio surreale.
Oggi si vedono alcune costruzioni disordinatamente sparse sul piano verde ricavato tagliando gli alberi, dove cavalli, mucche e pecore ora pascolano.

Questo pezzo di terra l’hanno chiamato “valle lindo” (bella vallata) per i colori verdi del pascolo, il fiume e i boschi alti che fanno da cornice.
Troviamo persone semplici, stabilite qui da poco. Ci aiutano a passare il fiume con i nostri equipaggiamenti.
Nella riunione attorno a un fuoco, con i dirigenti, le donne e i bambini, vogliono conoscerci per la sorpresa del nostro arrivo inatteso.
Dicono di non conoscere un medico o un’infermiera; nessuno mai è arrivato in questi posti e ci invitano a fermarci, potendo loro costruire un piccolo centro medico.
La terra è offerta in proprietà a chi la lavora e queste persone sono i primi arrivati per restare stabili sul posto, isolati dalla città distante almeno due giorni di cammino.

La notte ci sorprende e il materasso è una tavola di legno ricavata da alberi sacrificati alla fitta selva disboscata per ricavare appezzamenti da coltivare piantando il mais.
L’addormentarci nel freddo umido che ci avvolge e nel silenzioso ambiente che non conosciamo, provoca in noi emozioni nuove.
Fuori si sente il rumore costante della pioggia che non cessa di battere sul tetto; la preoccupazione del domani si lascia al dopo; si vive il presente e l’anima è carica di gioia.
Ci svegliano con la sorpresa di un bel piatto di trote, appena pescate al fiume e preparato dai locali, per comunicarci concretamente la loro riconoscenza e il loro benvenuto.
Ci mettiamo all’opera, il giorno dopo, iniziando le visite mediche, aiutandoci con il microscopio e l’ecografo alimentati dal motogeneratore che abbiamo portato.
Diagnostichiamo parassitosi intestinali, anemie, denutrizioni nei bambini, patologie reumatiche e addominali.
Non troviamo malaria di cui dicono avere sintomi.
Le persone provengono da tutta la Bolivia, da distanze e posti a noi sconosciuti.
Sono ex minatori che hanno lasciato le miniere per paura della silicosi e non trovarsi la sorpresa dello sputo con sangue; qui, seppur distanti dalla civiltà e senza cellulare, non vi è contaminazione dell’ambiente e si respira aria pura e libera.
Ci dicono: “venite ancora, vi aspettiamo. Non eravamo preparati, non sapevamo del vostro arrivo e molte altre persone da altri posti nascosti nella selva, potranno uscire la prossima volta”.
Lasciamo una data di promessa per ritornare e che non possiamo tradire nell’attesa per continuare quest’intesa di aiuto.

Il mal tempo continua da quando siamo partiti; ora ci avventuriamo per il ritorno.
Nel primo tratto di salita, la macchina si impantana con le quattro ruote motrici in movimento che non fanno presa per il fango troppo viscido e scivoloso.
Nulla da fare; la salita è troppo ripida, il fango troppo profondo e il fondo della strada non assestato e assente.
Neanche camminando riusciamo a stare in piedi se non aggrappandoci a frasche o arbusti.
Arrivano in ausilio i nostri amici campesinos che, con sorprendente sforzo di praticità, riescono a rimettere il mezzo sulla carreggiata da dove era scivolato.
Di nuovo lo sforzo del motore a pieni giri riesce a far procedere di alcuni metri, ma troppo insufficiente per poter sperare di uscire dall’inferno verde di fango, pioggia, nebbia e freddo.

Siamo fermi nuovamente sotto la costante pioggia. Inutilmente si scava nella fanghiglia con il piccone e una zappa per trovare lo strato duro per far aderire le gomme.
Neanche il disperato aiuto con le corde tirate da qualche campesino, aiuta a smuovere il mezzo dal fango.
Non resta che arrenderci e passare la notte nel nostro mezzo dove ci troviamo alloggiati: sei persone che condividono il poco spazio lasciato libero dal carico.
I vetri appannati lasciano grondare fuori l’acqua facendoci intravedere la pioggia nell’oscurità del monte.
E’ un’insolita situazione, una notte immersa in rumori strani di uccelli che si richiamano da lontano; le ore trascorrono lente.
Scomodi, rigirandoci per cercare la miglior posizione perché ci colga il sonno, ci confidiamo e rassereniamo l’anima con il Signore, inviando un pensiero di Preghiera per la famiglia, per gli amici lontani raccomandandoci al Supremo che ci conosce nel profondo dell’anima e che qui sentiamo l’Amico sempre vicino.
La pioggia cade tutta la notte trasformando il fango in una molliccia poltiglia scivolosa.
La decisione al mattino presto è già presa: “Ragazzi si cammina!!”.

Con l’aiuto di Simona, una del posto che ci accompagna, zaino in spalla, percorriamo scorciatoie che ci conducono fuori dalla selva e ci fanno raggiungere alture nascoste dalle nebbie da dove riusciamo a lanciare l’appello di aiuto ai nostri amici.
Dobbiamo camminare tutto il giorno prima dell’incontro con il mezzo che viene in soccorso.
Il momento dell’incontro sembra un abbraccio gioioso con le sicurezze del nostro vivere civile.
Sentiamo la mente carica di nuove immagini, per le persone conosciute e lontane, per la loro accoglienza con nuovi volti di uomini, donne e bambini adattati in una vita quotidiana dura e di sopravvivenza.
Abbiamo conosciuto posti inaccessibili e lontani, avventurandoci per avvicinarli e siamo riusciti a portare il segnale della buona volontà di collaborazione. Il gesto ora va migliorato e ripetuto perché non rimanga solo una nostra curiosa avventura ma, dopo aver conosciuto difficoltà, distanze e bisogni, un deciso impegno da mantenere nel tempo.

Dott. Pietro Gamba

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