Trasfusione… con molta speranza

22 Agosto 2016

Ad agosto, mentre l’Italia va in vacanza, in Anzaldo è un andirivieni di visitatori.

Tra questi c’è anche mio nipote Ivan ormai grande ma lo ricordo piccolo impegnato a giocare con le mie figlie quando si rientrava in Italia per una piccola vacanza in famiglia.

Ora i figli crescono ed è bello accogliere i nipoti che attraversano l’oceano per venirmi a trovare e capire in quale realtà, così diversa dalla loro, lavora ed opera lo zio in Bolivia.

Ad Ivan ho chiesto di portare le diapositive scattate nelle comunità visitate quando avevo la sua età e che risalgono a circa 40 anni fa. L’idea era di rivederle insieme ai campesinos ed alle loro famiglie per rivivere con loro impressioni, emozioni e ricordi.

Diapositive sotto braccio siamo partiti alla volta di Toremi e Totolima, due comunità che avevo conosciuto e visitato insieme a padre Angelo Gelmi arrivandoci a dorso di un cavallo, inerpicato su franose mulattiere che da vertiginose altezze scomparivano a valle nella folta selva tropicale.

Adesso è molto più agevole arrivarci, l’accesso è garantito da una strada e ci si impiega solo mezza giornata di viaggio.

Ci ha accompagnato Gregorio, un campesino che proviene da quei luoghi, conosciuto in Anzaldo come paziente. Siamo partiti per una campagna medica con Ivan, il suo amico Carlo e due infermiere di Pamplona per un fine settimana, ma senza un programma ben definito.

Dopo diverse ore di viaggio siamo arrivati in serata nella selva che ci ha accolto con un clima meno freddo rispetto ad Anzaldo, senza luce se non quella di uno spicchio di luna e con suoni nuovi di animali sconosciuti. Ci ha ospitato un campesino che ci ha anche donato una gallina per la cena. L’abbiamo sacrificata, spennata e pulita e l’abbiamo messa in pentola su un fuoco dispettoso perché alimentato da legna umida.

l giorno dopo i campesinos ci aspettavano per la visita medica che abbiamo eseguito con il supporto di un ecografo portatile.

Non ho trovato nuove e diverse patologie, bensì quelle croniche legate all’invecchiamento ed alla dura vita dei contadini. Reumatismi, artrosi, prostate ingrossate, calcoli della colecisti e numerose gastriti. Resto sempre sorpreso della poca confidenza che hanno con la nostra medicina che è arrivata anche da loro attraverso le campagne di salute dello Stato. Permane la diffidenza e le difficoltà di cambiare le loro credenze culturali ed il loro concetto di malattia che resta legato al fatto che sopravvive solo il più forte mentre il debole soccombe senza possibilità di salvezza.

Lasciamo la selva ed i suoi animali e ci dirigiamo per pranzo nella comunità di Chapisirca (vicino Challviri).

Quel pranzo sempre monotono costituito da un piatto di patate mi riporta indietro nel tempo, facendomi apprezzare il gusto degli anni trascorsi in pace e serenità presso di loro, sentendomi parte della loro comunità e soprattutto condividendo gli stessi gesti come quello di masticare un “piscio” di coca e “kuyuna” sotto un sole caldo e forte dall’alto dei suoi 3.500 metri d’altezza.

Consumato il pranzo ci attendeva la riunione già annunciata dal dirigente della comunità con l’intento di vedere insieme a loro quelle diapositive di tanto tempo fa.

Nella sede sindacale della comunità si trovavano riuniti solo uomini, come è tradizione e come ricordo si faceva anche ai tempi della mia permanenza.

Alcuni dei presenti mi conoscevano e vedendo le immagini proiettate ricordavano perfettamente i nomi delle persone che mi avevano ospitato nelle loro case e che la mia memoria non riusciva più a ricordare.

Mentre scorrevano le diapositive, affioravano emozioni e ricordi da parte di tutti soprattutto da parte delle persone più anziane.

Tante persone riviste nelle immagini erano morte e forse quell’immagine proiettata era l’unica foto del loro passaggio terrestre per cui è stato molto toccante poter riportare in vita il loro ricordo. Varie immagini ritraevano padre Angelo.

Una volta terminata la proiezione che aveva avuto la capacità di creare un clima di empatia e di unione attraverso ricordi passati vissuti insieme, il dirigente a nome di tutta la comunità mi consegna un foglio sul quale c’era scritto una richiesta formale di un aiuto per la costruzione, in loco, di un nuovo ospedale.

Chiedere è sempre lecito, se poi non è possibile ottenere quanto desiderato forse è possibile ottenere parte della richiesta.

Io ho cercato di spiegare che per avere dei servizi sanitari validi non serve costruire un ospedale che poi sarebbe una cattedrale nel deserto ma serve investire in gente motivata e disponibile che decida di impegnarsi per cambiare realmente le cose migliorando la qualità di vita dei campesinos di comunità isolate. Ho anche spiegato come l’ospedale di Anzaldo assorba tutto il mio tempo e tutte le mie energie per cui non potevo accettare altri incarichi ma ho voluto anche ribadire un concetto importante quello cioè che la colpa dell’assenza di professionisti sanitari è anche la loro nel senso che la comunità potrebbe controllare i medici e gli infermieri che lo Stato invia sugli altipiani pagandoli addirittura con uno stipendio più alto rispetto ai loro colleghi che operano in città. Questi operatori date le ovvie difficoltà di lavorare in luoghi inospitali per distanza e clima molto spesso non si presentano a lavoro.

All’uscita della riunione mi aspettavano ancora alcuni malati per farsi visitare. Il tempo era volato, si era fatto già buio e noi avevamo davanti tutto il viaggio di ritorno. Mi sentivo contento per le vivide emozioni vissute, per gli applausi spontanei e imprevisti, per il calore genuino della gente che ci aveva accolto anche se iniziava ad affiorare tutta la stanchezza legata al viaggio ed all’alzataccia mattutina per uscire dalla selva prima che piovesse e per evitare quindi che le strade si riempissero di fango.

Con disponibilità e pazienza ho ascoltato i problemi di una anziana signora che soffriva di coliche addominali e le ho lasciato alcuni farmaci per il suo dolore; dopo di lei un giovane mi chiede di aspettare per visitare suo figlio che non si muove. Chiedo se fosse nato paralitico e mi chiarisce che è nato solamente otto mesi fa e che prima era vivace ma nell’ultima settimana era improvvisamente cambiato fino a non muoversi quasi più. Attendo il suo arrivo. Una giovane ragazza lo porta in spalla con l’aguayo. Vedo la piccola creaturina pallida, con gli occhi infossati e la fontanella del cranio depressa, evidente segno di importante disidratazione. Riavvolgo il nastro dei ricordi, rivedo i piccoli che morivano per disidratazione provocata da diarrea e vomito. Rivedo i genitori che si rifiutavano di accettare le cure del medico ma non mancavano di portarli in chiesa per battezzarli, per non farli morire senza ricevere il sacramento.

Offro la mia completa disponibilità ad accompagnare il piccolo all’Ospedale Pediatrico della città dove possono trasfondere liquidi per recuperare le perdite. Dico che la salvezza è ancora possibile perché è come una pianta che ha bisogno di acqua per riprendersi.

La risposta della giovane madre rimane dubbiosa. Dice che l’hanno già portato al Centro Medico della comunità, che lo sciroppo che gli hanno dato non è servito a nulla e che il bambino non è migliorato; pensa sia qualche malocchio o credenze varie.

Insisto con il giovane padre perché decida di farlo trasportare, unica possibilità di salvezza per il bambino. Dice che lui non può decidere perché non vive con la ragazza ed è lei che deve scegliere. E la ragazza con il bambino resta muta; insisto e vedo che piange, mi dice che anche lei non può prendere una decisione, che ha paura di suo padre, che senza un permesso accordato la picchierebbe.

Faccio intervenire la comunità perché in questi casi dovrebbe avere un potere superiore di decisione rispetto al padre al momento non presente.

Le autorità che erano presenti alla riunione adesso fanno circolo attorno alla ragazza con il figlio morente. Sento che possiamo diventare un piccolo ma forte gruppo che decide la sorte del bambino senza difese.

Pensavo che la comunità decidesse per il trasporto in Ospedale, dando sostegno alla madre e garantendo che il padre non le facesse nulla.

Al contrario ho constatato un disinteresse ed una indifferenza totali. Il dirigente ha delegato tutte le responsabilità alla giovane madre, dicendo che loro non potevano fare nulla, sottendendo che quel figlio era figlio della madre e non della comunità.

Nel mentre discutevo con il dirigente cercando di fargli cambiare idea la giovane madre si era dileguata, sparendo nel buio, con il suo carico di tristezza e con il figlio morente. Nessuno l’ha richiamata, nessuno l’ha cercata, nessuno ha insistito per salvare il suo piccolo ormai destinato a morire.

Triste la scena e ancor più triste il ricordo di una realtà purtroppo ancora oggi presente nelle comunità lontane ed isolate, così distanti culturalmente dalla città.

I giovani che erano con me, non hanno percepito tutta la drammaticità che questo rappresenta. Forse la distanza culturale e la lingua sono barriere che impediscono il passaggio di questa realtà di dolore.

Continuo a rivolgermi sempre la stessa domanda: cosa posso fare? Molti anni fa, la risposta fu quella di iscrivermi a medicina e diventare medico per dedicarmi a queste situazioni incresciose che vedevo e che mi facevano soffrire. Oggi, i campesinos mi chiedono un ospedale con specialisti come se la Salute fosse competenza che a loro non riguarda.

Resto convinto che la Salute del prossimo è un compito di tutti, che non si può unicamente delegare agli specialisti ma deve interessare tutta la comunità a cui si appartiene. Non si può far prendere una decisione così vitale ad una sola persona, tra l’altro in evidente difficoltà. Se quella giovane donna fosse stata sostenuta da tutta la comunità molto probabilmente suo figlio si sarebbe salvato. La rassegnazione culturale, la delega agli “specialisti” che poi non ci sono, non arrivano o non vogliono arrivare in luoghi distanti ed isolati non è la migliore risposta, non è la giusta soluzione.

Porto con me il ricordo di quelle terre alte coltivate a giardino, in una terra fertile e nera che produce circa cinquanta tipi di farinose patate attraverso il duro lavoro dei campesinos che si alimentano poco, patendo freddo ed isolamento.

Essere medico tra questa gente è per me una sfida e mi interrogo quotidianamente come fare meglio.

La Solidarietà non è portare dei doni materiali ma è l’infusione, goccia a goccia, che porta vita restando vicino e disponibile al prossimo con sentimenti di amicizia di fratellanza e aiuto.

È la stessa infusione che serviva al bambino disidratato per vivere.

Dott. Pietro Gamba

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