Carasi

15 Febbraio 2016

“GIULIA! STEFANO! Buenos Dias!” È ancora buio, fa freddo, piove. Sono le cinque di mattina. È domenica. Sono passati esattamente tre anni dall’ultimo analogo risveglio che ho avuto qui ad Anzaldo. L’energia di Pietro È la stessa. Il suo modo di farti iniziare la giornata è lo stesso. Abbiamo deciso di andare a trovare Carla, una dottoressa che lavora nel centro medico di Carasi. Carasi. Un luogo a ridosso del confine tra la provincia di Sucre e del Norte Potosi dove ancora oggi non è chiaro se esista una strada per arrivarci. L’ultima volta Pietro ci andò a piedi per aiutare un “cura” che lo chiamò per valutare un campesino affetto da lebbra e che aveva bisogno di aiuto. Oggi invece ci andiamo con l’ambulanza. Servono pala e piccone perchè è probabile che dopo questi giorni di pioggia intensa parte del terreno sia franato e potrebbe essere necessario liberare la strada.

Stiamo andando a fare visita a Carla, trentenne, boliviana dal sorriso affascinante con un master in medicina umanitaria conseguito a Madrid che, parole sue, “desiderava svolgere il mestiere di medico in supporto alle persone che vivono in zone senza accesso alle risorse, realizzando che quel luogo era proprio dietro casa sua”. Da quasi un anno Carla è responsabile del centro medico di Carasi insieme ad Angel, infermiere di grande esperienza, angelo custode della dottoressa. Carla tutti i giorni della settimana combatte contro il freddo, la pioggia, le strade dissestate e in sella alla sua motocicletta raggiunge le comunità che fanno riferimento al suo centro medico per portare supporto e fiducia in un mondo che ruota ancora intorno alla figura del “curandero”, guaritore di infermità con la magia delle foglie di coca. A Carla, dopo pochi mesi dal suo insediamento, morì un ragazzino davanti agli occhi per una verosimile banale appendicite. Causa: l’ostinata decisione dei genitori di seguire i consigli dello stregone. La volta successiva, la seconda situazione di imminente fatale pericolo per un problema chirurgico urgente addominale a carico di un altro bambino, lei non ha esitato e a spese sue lo ha condotto fino all’ospedale di Pietro per farlo operare e salvarlo, attraverso strade sterminate a strampiombo sul Rio Caine. Pietro e Carla si sono conosciuti così e così è nato tra loro un rapporto di stima, amicizia e supporto reciproco. Adesso quello stesso tragitto lo stiamo per ripercorre al contrario, per portare a Carla un po’ di supporto, un po’ di forza morale nello sperduto pueblo di Carasi.

Ricapitolando. Sono le cinque di mattina. È buio. Fa freddo. Pala e piccone non ci sono. Sono nel magazzino a casa di Ester, il giorno prima tra le varie cose da organizzare ci siamo dimenticati di prenderli e caricarli sull’ambulanza. È domenica e non è giusto disturbare il meritato e quantomai raro riposo di una delle persone più fidate di Pietro. Che Dio ce la mandi buona. La strada sarà fangosa e scivolosa, proviamo ad inserire il 4X4 per dare più potenza, stabilità e sicurezza all’ambulanza. Nulla da fare. Bloccato. Che Dio ce la mandi buona. La partenza non è delle migliori. Caffelatte e ci mettiamo in marcia. Fari accessi, un picho di coca, Cuyunas e come sempre tanto ottimismo.

Lo spettacolo della valle del Rio Caine è mozzafiato. Anche con la nebbia, la pioggia e il fango gli scorci che si aprono sono meravigliosi. Il viaggio fino a Toro Toro fila liscio senza che pala, piccone e 4X4 ci facciano sentire la loro mancanza. D’ora in poi la strada da seguire sarà però un mistero.

Ed ecco la Provvidenza.

Incontriamo Francisco, il bidello della scuola pubblica di Toro Toro. È di Carasi. Deve tornare a casa. Sale sull’ambulanza con noi insieme a due amici davvero benvenuti: la pala e il piccone. Non solo. Due strattoni ben dati e voilà, il 4X4 è inserito. Ha anche smesso di piovere. Il viaggio fino a Carasi si trasforma in una sfilata di paesaggi, colori e profumi della natura scatenati dalla pioggia sulle foglie e sulle rocce.

Carla ed Angel ci stavano aspettando. Due sorrisi sinceri ci accolgono. Le due ore insieme volano via. Stanno davvero facendo un lavoro eccelso con le poche risorse a disposizione. La gente si fida di loro. Loro ci mettono l’anima e si vede. Loro hanno scelto quel lavoro e per questo lo svolgono in maniera rigorosa, metodica. Di Carasi e delle comunità della valle conoscono personalmente ogni singolo membro. Lo conoscono perchè hanno il piacere di condividere il tempo con ognuno di loro. Non è facile. La forza di volontà e la motivazione devono essere davvero forti per lavorare con passione in queste condizioni, spesso abbandonati e dimenticati dallo Stato. Io non riesco a togliermi dalla testa l’idea di vedere un giorno Carla lavorare a fianco di Pietro ad Anzaldo. Ho la percezione che sia l’evoluzione naturale di questa storia.

Dobbiamo ripartire. Abbiamo altre 6 ore di viaggio e dietro di noi abbiamo lasciato la pioggia e il fango.

Un fiume cerca di impedirci il rientro ad Anzaldo, ma la Toyota riesce a domarlo.

Ultima difficoltà alle spalle? No. Sulla strada del ritorno ci chiamano per una giovane ragazza con un aborto interno che sta sanguinando copiosamente. Il medico della comunità, situata dall’altra parte del Rio Caine, a 3 ore di ambulanza da Anzaldo (l’ospedale più vicino per poter gestire tale urgenza), è tesissimo. Acceleriamo. Siamo anche noi all’incirca alla stessa distanza. È già buio. Ci incontriamo sulla direttrice per Anzaldo a sirene spiegate seminando polvere dietro di noi. Due scie di fuoco che si fondono bruciando la strada verso l’ospedale.

È grave la giovane ragazzina. Pallida, sudata, fredda, agitata, spaventata, tachicardica. Non reggerebbe altre due ore di strada per Cochambaba. I biochimici del laboratorio sono già attivi. Le infermiere hanno già tutto pronto per l’eventuale operazione. C’è il dottor Ramirez, il chirurgo. È il suo ultimo giorno di lavoro. Non c’è esitazione. Subito in sala operatoria con una sacca di sangue donata dal marito. Esegue il raschiamento. Perfetto. Ultimo giorno di lavoro e ancora una vita letteralmente salvata.

La storia di questa domenica. Tutto iniziato male ma finito benissimo. Tutte le difficoltà affrontate con determinazione e sinergia e superate una dopo l’altra. Fino all’ultima. La più tosta, quella che ha dato la soddisfazione più grande.

Stefano Geniere Nigra

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