Emozioni dal mondo campesino

9 Marzo 2016

C’erano alcune nuvole quel giorno. Il sole si affacciava timido ogni tanto a rassicurarci che sarebbe stata una giornata senza pioggia. Ore 10.00 del mattino, io Pietro Elsa e Mara eravamo pronti per la partenza. La comunità di Challviri ci attendeva. Avevamo diversi panini, bottiglie di acqua, frutta e acqua calda per il caffè solubile. E poi, ovviamente foglie di coca fresche e cuyuna pronta da fumare. Certo le perplessità su come avremmo passato la notte non mancavano, ma con Pietro troppe domande non puoi fartele. Lui è sempre un fiume in piena. Energia straripante. Ti coinvolge, ti travolge, non riesci a dirgli di no, con la consapevolezza che quello che stai per fare ti segnerà per sempre.

Ci incamminiamo lungo una strada stretta e acciottolata. Curve a gomito, pericolose, e bastava guardare giù dal finestrino per capire che sarebbe bastato un attimo di disattenzione per scivolare in un precipizio. Gli altarini di coloro che avevano perso la vita percorrendo quella strada si susseguivano a distanze drammaticamente regolari lungo i tornanti. A voltarsi in dietro, da quella prospettiva, il sentiero tortuoso, addossato sulle pareti dei monti, appariva in tutta la sua pericolosità.
Stavamo salendo e Mara cominciava ad avere qualche piccolo problemino con l’altura. Stavamo giá preparando le foglie di coca per Pietro che guidava, io e Mara, una ad una. Elsa al suo fianco pronta a raccoglierle in un bicchiere e ad ogni curva qualche foglia volava via. Ci vogliono tante foglie di coca per fare un buon pijcho. Altrimenti dicono, “non serve a nulla”.
Ti devi riempire per bene la guancia. Devi masticarla, tenerla lì fin quando tutta la sensibilità della lingua cessa di esistere. È proprio allora che viene il meglio.

Quella per noi era la nostra prima volta… ma certe cose si sa, si imparano in fretta.
Pietro pijcha e fuma cuyuna, io ed Elsa e Mara cominciamo a pijchar per affrontare l’altura. E così curva dopo curva, Mara cominciava a star meglio. Eravamo tutti grintosi e pronti ad accogliere lo strepitoso spettacolo che si apriva dinanzi ai nostri occhi curva dopo curva. Le nuvole diventavano più basse. Erano lì sedute sui monti… come se qualcuno avesse messo cucchiaiate di soffice panna montata su quei morbidi seni della cordigliera tinte da ogni gradazione di verde. E macchie di colore dal giallo al rosso, dal bianco al viola, segno di un terreno fertile che regala patate di ogni genere. Non so se fosse per effetto del pijcho ma ad un certo punto avevo avuto l’impressione di essere entrata dentro un quadro. Solo che si trattava di un dipinto animato! Dopo circa due ore di viaggio, volevamo fare una prima sosta a casa di Don Pedro, paziente che era venuto in Anzaldo ad operarsi di prostata la settimana precedente. Pietro provava a chiedere in giro dove fosse la casa di Don Pedro, ma nessuno sapeva darci indicazioni esatte. Così decidiamo di fermarci per respirare a pieni polmoni quell’aria fresca e incontaminata e nel frattempo facciamo amicizia con una famigliola di campesinos impegnata a raccoglier patate.

Erano in tanti a lavorare: padre, figlio maggiore di 16 anni, e 4 figlie dai 12 agli 8 circa. Ecco il primo impatto con una realtà dura e a noi sconosciuta che si imprimeva violentemente nelle nostri menti. Erano piccoli quei bambini. Avrebbero dovuto giocare e fare i capricci, come tutti i bambini del mondo comune. E invece erano lì, a piedi nudi, con il volto segnato dal sole e dalla fatica, incuranti del freddo e dei loro piedi nudi. Cavavano patate con una velocità incontrollabile. Sembrava cosa da niente a veder loro. A turno proviamo anche noi. Pensavo che ne avrei trovate tante di patate. Purtroppo però, non c’è nulla di peggio della presunzione di chi pretende di esser in grado di saper fare una cosa, semplicemente rubandola con gli occhi. Gli occhi possono tradire a volte. Come in quel caso. Quei bambini esili e veloci sembravano far qualcosa di semplice ai nostri occhi. Ma dopo le nostre deludenti prove… era ovvio che quella velocità era frutto di esperienza e di duro lavoro.
Dopo due chiacchiere in loro compagnia risaliamo in macchina per raggiungere il nostro “albergo a tre stelle”.
Durante il resto del viaggio… avevamo immaginato davvero che la casa di Renee fosse un tantino più normale. Almeno da come ci aveva detto Pietro. Ma in verità avevamo pensato male.

Quelli come noi che sono abituati a vivere in case comode e letti soffici non possono neppure lontanamente immaginare cosa significhi entrare in una casa di campesinos. Quelli come noi, abituati a bagni puliti e acqua calda sempre pronta, non riescono ad immaginare come si possa vivere senza acqua corrente. Eppure tutto questo esiste. E ha un nome. Si chiama Realtà.
Avevamo parcheggiato sul ciglio della strada e subito di corsa vediamo in arrivo il piccolo Fernando. Capelli neri, occhi scuri e intensi. Diffidente all’inizio. Si avvicina con fare incuriosito e timido allo stesso tempo, ma appena vede che suo padre Renee ci saluta calorosamente… scuce il suo sorriso dolce e disarmante. E ci conquista tutti.
Non avevamo molta fame, non era passato molto tempo dalla sosta con i panini. Però ci invitano subito ad entrare in “cucina” per offrirci il pranzo a base di riso, patate e trippa.
Già… la cucina. Una sorta di stanza ricavata, come tutte le altre, con quei mattoni porosi e scuri, impastati con la terra. Un fuoco ardeva sotto una piccola cupola di cemento e sopra, le pentole del pasto che avevano appena cucinato.
Doña Modesta presenziava all’angolo vicino al fuoco e distribuiva le pietanze, mentre sua figlia lavava velocemente i piatti sporchi dentro un secchio d’acqua di fiume. Altro che acqua calda e rubinetto con miscelatore per evitare le ustioni. Qui d’inverno devi stare anche attento al congelamento.
Avevamo mangiato, bevuto ed eravamo pronti per continuare il giro della zona. Siamo saliti in auto ma questa volta con noi c’era anche Renee a farci da guida insieme a due suoi nipotini, di otto e nove anni, ai quali avevamo dato un passaggio per raggiungere le mucche al pascolo.

Le nuvole erano del tutto scomparse e il sole iniziava a sprigionare più calore. Raggiungiamo Don Juan e sua moglie in cima ad una montagna. Stavano “descanzando” e fumavano cuyuna. Pietro, che qui è conosciuto da tutti, viene accolto con grande gioia e noi con lui. Non si perde tempo qui e subito Don Juan ci dice che ha un problemino e lo visitiamo. È un ernia inguinale. Dovrebbe fare un intervento ma servono soldi. Lui non li ha. Lo aiuteremo noi tornando in italia. Era una promessa.
Raggiungiamo un altro villaggio più a valle alla ricerca di una delle prime case dove Pietro viveva un tempo… all’inizio della sua scelta. E finalmente arriviamo a casa dell’anziano don Ilarion con il quale Pietro si scambia un abbraccio intenso e profondo.
Lui ha una cataratta. Ad entrambi gli occhi, ma suo figlio Victor sta peggio. Apre la bocca e sul palato ha una bruttissima Leishmania. Va curata subito. Quindi provvediamo a prendere il suo recapito perché il lunedì l’avremmo chiamato per aprire il suo piano terapeutico.
Si stava facendo buio, il sole scendeva giù in fretta e così decidiamo di ritornare a casa di Renee. Sua moglie aveva preparato la cena per tutti.

Era una zuppa calda con dentro pasta, carne e patate. Era un piatto speciale quello. Come per noi le lasagne la domenica.
Eravamo seduti su piccoli sgabelli. La testa dovevamo tenerla bassa per non respirare il troppo fumo del fuoco che si raccoglieva in piccole nubi che si fermavano sotto il tetto della stanza. I bambini erano tutti lì con noi. Berretto di lana e piedi nudi. Sorridenti e curiosi come sempre. La piccola Enilse di 8 anni, sveglia e acuta come poche, aveva voglia di ballare e così mettiamo su della musica allegra sulla base della quale improvvisiamo passi di danza in uno spazio di appena 1 metro. Lei ha voglia di imparare, mi guarda con occhi attenti e segue tutti i miei passi.
In quel momento mi stavo chiedendo come sarebbe stato se fossi stata io quella bambina. Cosa avrei pensato di 4 sconosciuti venuti da chissà dove. Che hanno strani aggeggi con cui fanno tutto… chiamano al telefono, fanno foto, video e diffondono musica a scelta. Non so come sarebbe stata la mia vita. So solo che per quella notte, una sola notte… per noi era stata difficile.
Ci avevano lasciato quella che per loro sarebbe stata una suite. Camera con finestra e letto più grande. Io e Mara ci eravamo avvolte in un fagotto di lenzuola che avevamo con noi, e coperte di lana offerte da loro. Elsa si era infagottata su di un letto fatto di tela rigida… simile alle sdraio che si usano al mare. Quei letti erano duri e quelle coperte sembravano non bastare per affrontare il freddo della notte. Sarebbe stata una notte difficile per noi abituati ai lussi di case confortevoli. E fu davvero così.
Mara era stata l’unica ad addormentarsi e mi stava incollata per recuperare calore. Elsa e io avevamo gli occhi sbarrati e con frequenza di ogni mezz’ora ci davamo un segnale -Gianna dormi?- e io prontamente rispondevo – No e tu non dormi?
Che ridere quella notte.
Alle prime ore del mattino forse cominciavo ad addormentarmi. Mi ricordo di aver sognato in quel poco tempo. Ma non ricordo cosa. Avevo riaperto gli occhi un poco prima delle 5.30 e stavo aspettando disperatamente che il gallo annunciasse il giorno. Dopo nemmeno due minuti, eccolo che iniziava a cantare.
Un immensa gioia mi investiva… Si era fatto giorno e quel disagio di quella casa, di quel letto duro, della paura di pulci acari e zecche… era superato.

La luce del mattino cominciava ad illuminare la stanza e noi eravamo pronte per un altra giornata.
Esco fuori in cerca di qualcuno e vedo i bimbi che sono già svegli e pronti per andare al lavoro. Avevano gli stessi abiti del giorno precedente (e direi anche delle settimane precedenti). Avevo dedotto che avevano dormito senza “pigiama”. Che sciocchezza stavo pensando! Qui non sanno neppure cosa sia il pigiama. Dormono in 3 o 4 nello stesso letto duro e freddo. Non si lamentano per il mal di schiena, per il poco spazio, per il freddo. Non si lamentano e basta. Mai.
Appena Pietro si sveglia facciamo colazione con loro. Raccogliamo le nostre cose e siamo pronti per ritornare in città. Prima di partire però ci riempiono la macchina di patate e di un cosciotto di agnello da cucinare, tutto per noi.
La generosità e la condivisione qui, è più forte che altrove.
Quella notte avevo realizzato che la povertà, quando è troppa, crea disagio.
Il disagio di sentirsi fortunati.
Perché si sa, se siamo nati in un posto piuttosto che in un altro, se viviamo in un momento storico piuttosto che in un altro, non è certo per merito nostro.

Mi dispiaceva andar via. Quei momenti trascorsi con loro mi avevano dato una pienezza che non provavo da tempo. La loro semplicità. Quel vivere con poco, con i ritmi scanditi dal cammino del sole. Quel loro vivere in comunione con una terra difficile ma fertile come servi della terra, servi della necessità. Quei volti che sembrano adulti da sempre e quegli occhi velati di nostalgia…
Tutto mi restituiva la giusta misura delle cose. In quel momento ridimensionavo le mie ansie, i miei lamenti, le mie fobie, i miei fallimenti, le mie sciocche insoddisfazioni.
Avevo scattato una fotografia di quel posto e di quella vita. Era una foto piatta, senza la terza dimensione, quella della prospettiva.
E l’avrei portata sempre con me!

Gianna Barrella (Medico Patologo volontario in Anzaldo)

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