Il miracolo di Luciano

20 Ottobre 2021
Mentre scrivo ho ancora negli occhi l’immagine di Luciano e sua moglie Jovita che piangono. Sono lacrime di gioia le loro, mentre fanno i primi passi fuori dall’incubo che sembrava dover distruggere la loro vita. Luciano si aiuta col deambulatore ortopedico, le sue gambe scarnite dal fuoco non sono ancora in grado di assicurargli una completa autonomia. Ma aver lasciato il letto dopo mesi di disperazione e sofferenze è una vittoria che sembrava impossibile da ottenere. Un mese di ricovero in una clinica del capoluogo, altri cinque mesi di degenza domiciliare, e infine un mese nel nostro ospedale in cui l’agonia ha lasciato pian piano spazio a un percorso sempre doloroso, ma via via confortato dal germogliare della speranza.
Il cammino verso la completa ripresa sarà ancora lungo e tribolato per Luciano, straziato da terribili ustioni in un incidente sul lavoro. Ma la serie di interventi da parte del chirurgo plastico sta dando i suoi frutti, la pelle prelevata da parti sane del corpo compreso il cuoio capelluto, e trapiantata sulle gambe, sta restituendo a quest’uomo di 35 anni una vita che sembrava compromessa.
Trovo Luciano in corridoio, circondato dalle attenzioni delle infermiere. E’ un po’ curvo nell’appoggiarsi al deambulatore, e nei suoi occhi non vedo il sorriso pieno di speranza e fiducia con cui in queste settimane aveva ricompensato i nostri sforzi, ma lacrime che mi emozionano fino a farmi venire un nodo in gola. “Posso finalmente camminare, sono felice”, dice quasi a giustificarsi. Lacrime scorrono anche sul volto di Jovita. Lei ha accompagnato il marito in questi mesi terribili con determinazione e senza cedimenti, assistendolo come un bambino nelle sue necessità quotidiane, senza dare spazio allo sconforto quando sembrava non esserci speranza, soffocando nel silenzio il dubbio che ogni sforzo fosse inutile.
Mi siedo al fianco di Luciano, per ascoltare la sua storia. Lui è un saldatore, e con i due fratelli ha avviato un’attività di carpenteria meccanica. Racconta: “Avevamo preso un lavoro nella provincia di Chapare, a 150 chilometri da casa. Il 16 marzo stavamo terminando la costruzione di una tettoia. Lavoravamo in fretta perché il lavoro andava ultimato prima della festa di San Giuseppe. Verso le sette di sera stavamo saldando una trave lunga otto metri. Io e mio fratello Natalio, 24 anni, lavoravamo a un’estremità della trave, a circa tre metri da un bidone da 60 litri pieno di benzina; l’altro fratello, Feliciano di 27 anni, era all’altro capo, più lontano dal bidone. Da noi la benzina è razionata; è molto ricercata anche perché serve per macerare la coca ed estrarne cocaina, e il Chapare è famigerato anche per il narcotraffico. A noi serve come diluente per la vernice e per tornare a casa in motocicletta. La fretta, il buio, le maschere da saldatori ci hanno impedito di renderci conto del pericolo prodotto dalle scintille. Improvvisamente mi sono sentito investire con grande potenza da un’ondata, per un attimo ho pensato fosse acqua. Invece quella che ci stava investendo era benzina infuocata, che in un attimo ci ha avvolto come torce umane. Sono fuggito cercando di strapparmi i vestiti incendiati e urlando ‘Signore, Signore’, peggio ancora è andata a Natalio che indossava una maglietta più infiammabile della mia; Feliciano, investito in modo meno violento dall’ondata di fuoco, è corso a invocare aiuto. Ci hanno portato all’ospedale più vicino dove non hanno potuto fare altro che bendarci come mummie. Urlavamo per il dolore, che niente riusciva a calmare. Il giorno dopo ci hanno trasferito nell’unico ospedale pubblico statale dove il servizio è gratuito, dato che da qualche anno in Bolivia c’è il Servizio Universale di Salute, ma non c’era posto per noi”.
Continua Jovita: “Mi sono rivolta alle cliniche private, ma mi sono vista chiedere un anticipo fuori dalle nostre possibilità (l’equivalente di diecimila euro). Sono tornata all’ospedale statale, dove mi attendeva una nuova doccia fredda: il ricovero è gratuito con l’unica condizione che il paziente non provenga da una struttura privata, e la dottoressa che aveva prestato i primi soccorsi a Luciano e ai miei cognati nella fretta aveva apposto al foglio di dimissioni il timbro che usa quando lavora in una clinica privata. Gli operatori di turno all’ospedale non hanno voluto sentire ragioni e hanno negato il ricovero. Non mi è rimasto che tornare alla clinica privata, dove davanti alle mie implorazioni hanno accettato un anticipo di cinquemila euro, tutti i nostri risparmi. Erano passate più di 24 ore dall’incidente”.
La diagnosi d’ingresso parlava di ustioni su oltre il 80% del corpo per Luciano e Natalio, che sono stati trasferiti in terapia intensiva. Natalio non ce l’ha fatta, morendo dopo tre giorni di agonia. Luciano dopo quattro interventi e un mese di degenza è stato dimesso, anche per evitare costi ancora maggiori alla famiglia. Ancora tutto bendato, Luciano è rimasto per cinque mesi a giacere nel letto di casa sua, assistito da Jovita che ogni settimana lo portava alla clinica di Cochabamba per controlli, medicazioni e cambio di pomata e garze.
“Luciano giaceva immobile a letto, non poteva nemmeno girarsi da solo, per i nostri tre figli vedere il loro papà in quelle condizioni era uno strazio. A me era stata ordinato di fargli seguire una dieta di solo riso in bianco senza condimento, con al massimo poco pollo, qualche patata e carote. Ma così deperiva e perdeva quelle poche forze che gli restavano. Allora ho disobbedito, incominciando ad alimentarlo con quinua, carne, pesce e frutta, cose che gli piacciono e gli fornivano proteine e collagene”.
Come sei arrivata a rivolgerti a noi ad Anzaldo? “Erano passati sei mesi e non c’erano miglioramenti, anzi il quadro peggiorava, su braccia e gambe c’erano ancora ferite aperte e profonde, Luciano non riusciva nemmeno a estendere gli arti restando in una posizione rattrappita. Mi era chiaro che non sarebbe sopravvissuto se non avessimo trovato una via diversa. Al mercato c’è una fruttivendola che ha il volto coperto quasi tutto da una maschera, a causa di un’ustione. Mi è venuta l’idea di chiederle chi l’avesse curata, ma non osavo. Ho però parlato con la figlia, che mi ha fatto il nome del dottor Romero, un chirurgo plastico della città. Questi mi ha suggerito il ricovero ad Anzaldo”.
Quando Romero ha telefonato al nostro ospedale chiedendoci di ricoverare il suo paziente, gli ho confermato la nostra disponibilità. Luciano si è presentato da noi il 9 settembre. Quattro persone lo hanno scaricato dall’ambulanza sorreggendolo con un telo. Volto e collo recavano segni di ustioni, senza però esiti di retrazioni cicatriziali. Ma gambe e braccia erano del tutto bendate, lasciando liberi solo piedi e mani. E quando in sala operatoria abbiamo tolto le bende abbiamo visto ulcere profonde e sanguinanti. Bisognava anzitutto estendere gli arti e immobilizzarli in estensione con l’ingessatura. La prima sessione del dottor Romero, pur con la somministrazione del rilassante muscolare, ci ha visti costretti a usare la forza per raddrizzare gli arti anchilosati. Questo ha prodotto un inevitabile sanguinamento, in un corpo già al limite dell’anemia. Durante e dopo l’intervento sono dunque state trasfuse a Luciano diverse sacche di sangue, il che ha prodotto una reazione allergica con tachicardia, innalzamento della pressione e forti tremori. Problema risolto ricorrendo a sangue trattato e selezionato con particolari test. Si sono così potuti iniziare gli inserti di pelle alle gambe.
Resta ancora molta strada da fare. Ma ora è grande la gioia che Luciano trasmette a tutti noi, nel vedere in fondo al tunnel l’abbagliante luce della speranza.
Chiedo a Luciano: hai pensato di non farcela? “Se fossi restato solo a casa mia – risponde – avrei fatto la stessa fine di mio fratello Natalio. Ma da quando sono arrivato ad Anzaldo non ho più avuto pensieri negativi, perché ho trovato persone competenti in cui ho fiducia. Ora sono sicuro di vincere la mia sfida”.

Pietro Gamba

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