Ritorno alla semplicità – di Carlotta Donelli

22 Giugno 2010

“Bolivia” per me voleva dire provare una nuova vita. E, ora posso dirlo, la mia nuova vita qui l’ho trovata. Una vita diversa da quella che sono abituata a condurre, forse una vita più dura, ma non per questo meno bella.

 

Nell’ospedale di Anzaldo ho potuto condividere con Pietro e i suoi colleghi Antoine e Mauro, le difficoltà di ogni giorno. E ho potuto vedere il vero volto della Bolivia. L’ho visto impresso nei pazienti che vengono qui ogni giorno, che vengono a chiedere aiuto. Sono tutte persone umili che si mettono nelle mani dei medici a volte con fare un po’ titubante (hanno molte credenze difficili da scalfire).

 

I pazienti arrivano un po’ spaesati in quest’isola felice che è l’ospedale di Pietro. Loro, abituati a dormire per terra in case di adobes (mattoni di fango), si ritrovano qui dove ci sono mura, bagni e letti. Allo stesso modo mi sono sentita io quando sono andata a visitare alcune case. Non sono case come le concepiamo noi, eppure loro ci vivono, si adattano. Questo è il bello della mia esperienza. Non sono rimasta chiusa in ospedale, Pietro mi ha anche portato a vedere da dove vengono i pazienti.

 

Quanta strada devono fare a piedi, a volte con dolori terribili, per raggiungere l’ospedale. Sono distanze inimmaginabili, che io non riuscirei a percorrere neanche se fossi allenata da anni. Eppure loro ce la fanno. Perchè, per quanto a noi possa sembrare assurda e triste la loro vita, loro la difendono. Loro combattono per la vita. Combattono come sono abituati ad adattarsi al clima, di modo che il loro campo produca, dia loro qualcosa da mangiare e, chissà, forse da barattare.

 

Tutte le persone che ho incontrato sono umili ma piene di spirito e non perdono mai l’occasione di invitarti a condividere un momento, un bicchiere, un po’ di coca. Non sanno chi sei ma vedono che non sei uno di loro. Sanno però che sei amico di Pietro, che è uno di loro.

 

Non ho mai conosciuto persone tanto gentili. Non mi sono mai sentita così accolta. Eppure, ripeto, sono persone che non hanno molto da offrire, in senso materiale. Ma ti riempiono il cuore di felicità, perchè sono la dimostrazione dell’ospitalità.

 

Omero diceva “L’ospitalità è cara agli dei”, mai questa frase è stata tanto vera nella mia vita. Io sono venuta in Bolivia per vedere la realtà sudamericana. Trascinata un po’ dai miti del ’68, ho voluto vedere. Ho venticinque anni e non mi sono mai stati molto simpatici gli ex sessantottini che parlano di cose che non hanno mai visto. Io sono come San Tommaso, devo mettere il dito, devo vedere la realtà. Qui ho visto i sogni del ’68 infranti. Lo sono perchè questa parte del mondo è andata molto di moda in quel periodo, ma ora non interessa più a nessuno. E’ ovvio, è una realtà lontana e anche scomoda. Scomoda perchè fa venire i sensi di colpa. Noi siamo andati avanti, ci siamo tolti le magliette con su la faccia del Che Guevara e loro sono rimasti qui. Senza più nessuno. Sono rimasti qui, nelle loro case di fango, nella loro povertà, a lavorare il campo fino a massacrarsi per poter sopravvivere. Noi siamo andati avanti. Con le nostre TAC, PET, laparoscopie, internet, vacanze a Ibiza, ipad, ipod, iphone, con le nostre diete macrobiotiche e la nostra ossessione per la perfezione.

 

Loro sono rimasti qui. A lavorare, a piagarsi il corpo e l’anima, a trasportare le cose nell’ aguayo (che siano patate o bambini poco importa). Solo visitando i pazienti ho potuto capire quanto sia difficile la loro vita. Le mani e i piedi sono spesso deformati dall’artrosi, la pelle è secca e tagliata dal freddo, i corpi sono sporchi, le schiene quasi tutte doloranti, i denti spesso mancano. Quello che non manca mai però, in questo paese, è l’affetto. Nessuno ti nega un saluto, un abbraccio, un sorriso, una parola gentile. Nessuno ti nega di entrare a casa sua quando c’è una festa e metterti a ballare e a bere chicha proprio come loro. Nessuno si meraviglia se gli dai un passaggio in jeep, è cosa gradita e usuale. Ecco cos’ho trovato in Bolivia: l’amore. Quell’amore umano e comprensivo che non trovavo più nella mia vita da “primo mondo”.

Quell’accoglienza cara agli dei che mi sembrava solo una frase fra i libri di scuola. Quell’amore che ho da dare, perchè loro ne hanno bisogno. Quell’amore con cui Dio si manifesta, in modo a volte strano e incomprensibile. In questo momento sto scrivendo sotto il portico dell’ospedale. E’ accanto a me Usiel, un bambino di dieci anni. E’ incuriosito dal computer e sta guardando cosa scrivo. Mi fa domande, cerca di leggere. Mi sta facendo compagnia, senza infastidire. Fa dei grandi sorrisi e mi riempie il cuore di gioia.

 

Forse sarà grazie a persone come lui che questo paese resterà grande. Perchè sono curiosi, ma ci tengono alle loro tradizioni. Perchè sorridono, e non sono mai molesti. Perchè sono semplici e ne vanno fieri. Ciao.

Carlotta

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