Santa Cruz de Viru Viru – Gate di imbarco per Madrid

11 Marzo 2019

Giá atterrata, o quasi, nel mio mondo occidentale, dove i cappellini con i llama costano sedici dollari. Mi compro una anonima empanada con queso e un the freddo in una caffetteria dell’aeroporto, mentre aspetto che apra il mio gate. Mi ricordo il papawaico di Challviri con malinconia, mentre mastico questa empanada stampata.

La storia del Dottor Pietro Gamba in Bolivia inizia quasi quarant’anni fa, tra i campi di Challviri. Prima c’era solo Pietro, un ragazzo che, anziché il servizio militare, aveva scelto di fare tre anni di volontariato con i bambini orfani di La Paz.
È il mio ultimo fine settimana in Bolivia e Pietro decide di portarmi a visitare il posto sperduto dove tutta questa storia è iniziata, insieme a quasi tutta la sua famiglia: doña Machi, Alba all’infinito, Dra. Silvia e miss Norma.

La modesta casa di adobes di Guillermo ha un letto di paglia accanto al fornello a gas, qualche seggiolino e un angolo, al lato opposto della stanza, dove nei giorni piú freddi si accende il fuoco per scaldare e cucinare. Le pareti e il soffitto sono completamente annerite, dal metro di altezza in su: quando il fuoco è acceso non si puó che stare sdraiati sul letto o seduti sui seggiolini a terra. La casa è priva di finestre, per mantenere il caldo nei rigidi inverni, e la piccola porta ti costringe a abbassare la testa per entrare. È già ora di cenare e la moglie di Guillermo, doña Nica, ci fa accomodare tutti seduti sul letto e ci dá un piatto a testa colmo fino all’orlo in perfetto stile boliviano: c’è del chuño, patate disidratate e cotte con un pó di uovo, un pezzo di carne di mucca essiccata, molto speziata, e qualche patata bollita.

I popoli delle diverse valli si nutrono di alimenti diversi, a seconda di quello che puó produrre la loro terra. Ad Anzaldo c’è il mais, per esempio. Qua a Challviri le patate. Immense distese di campi di patate. Sacchi di patate al ciglio della strada: i quintali raccolti a fine stagione. Le mani della gente del campo, ruvide e segnate dal lavoro della terra, sembrano esse stesse vanghe, veri e propri strumenti di lavoro. L’altro giorno, a fine giornata, dopo le due chirurgie con il Dr. Antezana, Pietro ed io siamo andati a fare un giro in bicicletta per i campi nei dintorni di e siamo passati accanto ad un uomo che stava arando il suo campo: guidava a piedi i due buoi che tiravano l’aratro, in un lento lavorare la terra, metro dopo metro.

Sembra di essere fermi a tanto tempo fa. Tanto che non so neanche quanto, io che vengo dal mio millennio e dai miei ritmi moderni.

Nica, Guillermo e il figlio adolescente si siedono sui seggiolini al lato opposto della stanza e mangiamo tutti insieme in religioso rispetto. Sono le patate piú buone della mia vita. Sará che guardando le mani di doña Nica avverto tutta la fatica che é servita a crescerle e a raccoglierle. Fino a cucinarle e farle arrivare nel piatto che ho tra le mani. I campesinos non hanno molto altro. Hanno le patate, per nutrirsi e avere le forze per poter lavorare i campi, dove coltivano altre patate. Come un circolo vizioso, o virtuoso, a cui non sfuggi. Non c’è altro se non il lavoro della terra. La continuitá di un ciclo che si rinnova di generazione in generazione e resta immutata negli anni. Un popolo contadino, silenzioso e dignitoso, sospeso in un tempo che fatico a catturare.

Non basta una macchina fotografica digitale, servirebbe un’enciclopedia cosmica che giustificasse la coesistenza, nello stesso millennio, dei campesinos e dei milanesi di corsa. Una volta finito il cibo, è tradizione consegnare il piatto vuoto a chi te lo ha offerto, ringraziando. Guillermo con gli occhi brillanti e un sorriso senza denti, ci offre un pijcio*, prima di andare alla veglia funebre per doña Julia. Sono giá quasi le otto della sera, ed è ora di tornare alla casa della famiglia della defunta.

La nostra visita a Challviri è caduta in un fine settimana di lutto per la comunità. Un camion colmo di patate e di persone ha avuto un incidente sulla strada per Cochabamba. Il bilancio è tragico: una donna di trentanove anni perde la vita, la sua bimba di quattro rimane ferita al volto, un’altra bambina muore, il conducente rimane lesionato gravemente al midollo spinale e altre persone rimangono ferite.
La strada che collega Cochabamba a Challviri è una strada sterrata meravigliosa: il sole stamattina la illuminava in ogni angolo. La strada sale dall’ altipiano a inerpicarsi sulle montagne, supera due passi montani ad un’altitudine di 4200 m, scivola tra infinite cime dolci, apre un paesaggio da quadro ad ogni curva, campi coltivati a piccoli appezzamenti di colori di sfumature diverse, il torrente che passa in mezzo alla valle e solo piccole case di paglia, sparse. Qualche mulo, qualche cavallo, qualche motocicletta.

Una strada che in quattro ore ti porta indietro nel tempo, ti fa dimenticare la fretta della cittá, il trambusto, la confusione e ti porta in una dimensione silenziosa e lenta. Surreale. La nostra 4 x 4 non fatica ad aggrapparsi alle curve e alle salite e a superarle. Ma il camion, malandato e vecchio, che partiva da Challviri per andare in cittá a vendere il raccolto di patate, non è riuscito ad affrontare una salita ed è scivolato verso una scarpata travolgendo le persone che trasportava nel carro.

Challviri ieri notte ha perso un membro della comunità e ora tutti sono riuniti nel cortile della famiglia. Arriviamo lí anche noi e veniamo accolti da René, il diacono della comunità, vecchio amico di Pietro, che ci prepara una stuoia colorata su una panca di assi di legno, simbolo di riconoscenza e autoritá, dove possiamo sederci. Nel grande cortile tutte le donne sono sedute a terra, con il loro sombrero chiaro di paglia ingessata, la poyera e le lunghe trecce nere da cholitas; stanno preparando grandi quantitá di patate sbucciate e di fave. Il vedovo ha sacrificato un toro, che stanno macellando in una stanza che dá sul cortile. In cucina bolle una grande pentola con una minestra di patate e carote da offrire a tutti i presenti. Simona, una signora Challvirena nubile, passa tra le persone a distribuire foglie di coca e sigarette. Chi non lavora sta pijciando e fumando, in un silenzio interrotto solo dal pianto dei parenti che, dietro un cellophane blu appeso al porticato di legno e paglia, stanno ricomponendo il cadavere della giovane madre.

Tutta la comunità si è fermata e riunita per partecipare alla cerimonia del funerale. I campi, che da oggi pomeriggio sono immersi in una fine nebbia umida, riposano solitari.

René ci chiede se possiamo aiutare i parenti a recuperare le corone d’oro dei denti della defunta. La Dra. Silvia Gamba e io ci improvvisiamo e riusciamo a sfilare le corone d’oro che la donna portava sugli incisivi, come la gran parte delle persone boliviane che ho visto, simbolo di benessere e pregio. Una grande bara di legno laccato e grandi mazzi di fiori colorati arrivano da Cochabamba, le candele illuminano appena le orazioni in quechua di tutti i presenti e l’oscuritá. Intanto piatti colmi di minestra, patate e carne di toro vengono serviti a tutti. Ci sono tantissimi bambini in giro e, nonostante la pelle cotta dal sole e le mani irruvidite dal lavoro, la maggior parte della gente è giovane. La veglia prosegue tutta la notte e l’indomani, domenica, si fará il funerale.

Ricordo la visita che questo pomeriggio abbiamo fatto ad un uomo di una comunità a qualche chilometro di distanza, sulla strada che porta al Chapare. Siamo Pietro, Alba, Norma, Dra Silvia e io. Machi é rimasta alla comunità, a socializzare con le altre donne di Challviri e pregare. Parcheggiata la jeep, abbiamo proseguito a piedi, superato il fiume, attraversato i campi. Tante case di sassi e paglia giacciono abbandonate, ormai non rimangono che poche persone a vivere qua. Pietro ci racconta di quando da ragazzo ha vissuto con questa gente, ospite nelle loro case; si ricorda in modo nitido come era fatto il cortile, l’angolo con il bracere, gli umili letti.
Don Elarion é un signore di 86 anni, che continua a vivere qua, solo. I figli si sono trasferiti in cittá, la moglie è morta da tempo.

Lui ha un sorriso pacifico e ci accoglie offrendoci un seggiolino appena fuori da casa sua, dove ci mettiamo a pijiciare insieme. Io non capisco molto di quello che si dicono: stanno parlando in quechua. Pietro mi spiega che Elarion continua a coltivare il suo campo di patate, come sta facendo da tutta la vita, poi mi guarda e mi dice sorridendo convinto: “Se non ci vanno loro in Paradiso, chi ci va?”. Lasciamo a Elarion alcune pesche che abbiamo portato dagli alberi di Anzaldo e lui, senza indugio, ci omaggia con una borsa di patate del suo campo. Sulla strada di ritorno a Challviri incontriamo tante donne e ragazze che pascolano le pecorelle, le mucche o i tori, e nessuno ci nega un bel sorriso. Il clima é diventato ormai freddo e umido, il cielo é coperto da un velo di nebbia. Poi, al nostro ritorno alla comunità, don Guillermo ci invita tutti a cenare e dormire a casa sua per la notte.

Le persone rimaste ferite nell’incidente sono state trasportate tutte in ospedali in cittá, che sono un intricato dedalo di cliniche private. L’ospedale pubblico é spesso oberato di pazienti e non puó offrire servizio a tutti. Don Placido, il conducente e proprietario del camion, rimasto ferito gravemente, viene portato in una clinica privata dove gli diagnosticano, con una TAC, una lesione midollare a livello delle vertebre lombari. Decidono di operare per stabilizzare la frattura vertebrale e intervengono senza spiegare nulla ai parenti. Coltivatori di patate. Per l’intervento presentano un conto di 50.000 boliviani, circa 6.000 dollari, piú circa 1.000 dollari al giorno per il post operatorio in terapia intensiva. Dollari che, se tradotti in patate, è facile intuire che non esistano.

La famiglia di Placido ha perso un lavoratore: senza l’uso delle gambe sará difficile tornare alla vita in Challviri, e si deve indebitare per un’operazione chirurgica senza benefici. Il fratello è disperato e non indugia nel dire: “Sarebbe stato meglio se fosse morto”. Eppure le cliniche private non hanno nessun rimorso a presentare il conto spese, indipendentemente dalla provenienza dei pazienti. In questo caso la cura diventa fardello ulteriore alla tragedia perché grava economicamente sui membri della famiglia che rimangono.

Penso al nostro sistema sanitario nazionale che è costante frutto di lamentele per le attese e la qualitá dei servizi e il costo del ticket e che manca parcheggio, che il caffè al bar è bruciato. Che confronto sconcertante.

Passiamo la notte ospiti di don Guillermo e doña Nica, che sono felici di ospitarci. I letti sono umili, ma puliti e dignitosi. Il senso dell’ospitalitá e della condivisione si capisce solo quando si viene accolti da qualcuno che ha poco ma che non indugia un secondo a dividerlo con te. Ci sentiamo uniti e tutti uguali, è una sensazione di appartenenza straordinaria. La colazione é un papawaico: patate bollite e yajua, una salsa piccante di locoto accompagnata da una tazza di acqua calda zuccherata aromatizzata alla cannella. Il sapore è quello del frutto della terra, curata e rispettata. Pare il sapore di “un mondo migliore” come canta Vasco nella canzone che è stata la colonna sonora di questi due mesi e che abbiamo cantato a squarciagola ad ogni occasione.

Il pensiero che ne deriva è che abbiamo il dovere di difendere questo popolo dallo sfruttamento economico che li impoverisce e li indebita in caso di disgrazia o malattia, perché é un popolo maestro, che sa insegnare il rispetto umano e la condivisione, la solidarietá é l’unione tra fratelli e vicini di casa. O forse piú in generale abbiamo il dovere di difenderci a vicenda in caso di debolezza. In Bolivia o in Italia o nel resto del mondo. Di far valere quei moti spontanei di gentilezza e fratellanza che a volte cercano di venire a galla anche nella fretta della cittá.

Al mattino il funerale, recitato da René interamente in quechua a salutare l’anima di doña Julia, che lascia su questa terra il marito e i tre figli piccoli, abbracciati da tutta la comunità che sembra immobile da ieri, seduta nel prato e ai lati del cortile, pijciando, fumando e sbucciando le patate in silenzio.

Da Pietro e la sua famiglia ho trovato un angolo di mondo sano e salvo. Pulito, tenuto pulito, giorno per giorno. Dove i sentimenti puri hanno ragione d’esistere. Dove va bene essere buoni, non c’è nessuno che ti vuole imbrogliare. Bisogna ricordarsi di alimentare il fuoco e bagnare i fiori, che fioriscono. E di raccogliere le rose per averne sempre una fiorita sulla scrivania, come su quelle del Dr. Pietro Gamba e della Dra. Margarita Torrez.

Dott.ssa Viola Bonfanti

 

* pijcio: tradizionale rito andino del masticare le foglie di Coca.

Altri Racconti

Auguri di Buona Pasqua 2024
Auguri di Buona Pasqua 2024

Il dottor Pietro Gamba e la sua famiglia augurano a tutti una Buona Pasqua, ringraziando al tempo stesso coloro che hann...

Solidarietà a confronto
Solidarietà a confronto

Due racconti di solidarietà a confronto: la comprensione del lavoro e della fatica del campesino attraverso la cura del...

Viaggio in Italia 2023
Viaggio in Italia 2023

Dopo le tre settimane del mio viaggio di quest’anno in Italia, desidero condividere le emozioni che mi hanno ricaricat...

Bottom Image