Un soffio..

15 Marzo 2016

Avevo appena ottenuto una piccola soddisfazione personale a fine mattinata. Finalmente dopo vari tentativi ero riuscita ad ottenere con i pochi mezzi a nostra disposizione un buon PRP, con un numero soddisfacente di piastrine per procedere con la prima infiltrazione al ginocchio, ad una donna di 55 anni.

Subito dopo però, la giornata ha preso un’altra piega.

In sala emergenze arriva una ragazza di 18 anni, con febbre a 38, dispnea, astenia… viene dal Chapare, una zona endemica di malattie tropicali e potrebbe avere di tutto.

Malaria, dengue, chikungunya. Non bisogna sottovalutare mai nulla qui. L’esame obiettivo polmonare non promette bene a prima visita. Pensiamo ad una tubercolosi ma abbiamo qualche perplessità. Il quadro radiologico è abbastanza compromesso, potrebbe anche essere un’aspergillosi ma come fare a capire se non con un espettorato? Lei ha difficoltà respiratoria ma tosse… poca. Nel frattempo con Whatsapp, invio le immagini anche ad alcuni colleghi italiani, e un amico radiologo mi dice che potrebbe essere proprio una tubercolosi florida. La conferma arriva più tardi dal laboratorio… si tratta davvero di tbc.

Buon lavoro quello di lavorare in equipe. Anche a distanza. In medicina bisogna collaborare sempre, tutti insieme, ognuno con le proprie competenze avendo ben chiaro solo una cosa… la salute del paziente.

La Giovane è ancora sul letto in sala emergenze quando l’infermiera annuncia che abbiamo un altro caso urgente. Un ragazzo con avvelenamento da pesticidi.

Corro in sala d’attesa per chiamarlo e vedo questo giovane seduto, sguardo perso nel vuoto. Si alza, cammina a passi lenti e mi segue. Sua madre è piccola e minuta, ma lo sostiene con forza tenendolo per un braccio. Con loro c’è anche una giovane donna che si alza immediatamente per seguirlo. Vuole entrare anche lei ma sulla porta esita. Percepisco qualcosa di strano. Invito anche lei ad entrare ma resta ferma. Leggo il terrore nei suoi occhi e il disagio di chi non si sente gradito, di chi si sente un “colpevole intruso”. Avrei capito solo più tardi cosa stava succedendo.

Sebastian, 18 anni anche lui, giovane, bello. Occhi neri e una folta chioma di capelli corvini. Ha il mondo in mano e tutta una vita davanti a sé. Bisogna intervenire tempestivamente, senza perder tempo. Un coro di voci e suoni di macchine. Infermiere che corrono, aprono accessi venosi, medici che parlano con la madre, con il paziente, tra di loro. Un insieme di ingranaggi si mette in moto per intervenire in maniera corretta, rapida, senza tralasciare nulla… quando uno strano foglio spunta dalle mani della mamma. È un foglio scritto a penna. Un foglio di dimissioni. Il ragazzo era stato ricoverato il giorno stesso dell’incidente in un altro ospedale in città, e sua madre aveva deciso di portarlo via dopo che nessun medico era riuscito a darle garanzie sul fatto che sarebbe sopravvissuto. Qui funziona così. La salute non è garantita in automatico per tutti. Qui sei tu, o meglio la tua famiglia, a decidere se può garantire per te. Qui ogni volta devono far i conti con “la plata”. Qui ogni volta devono scegliere se correre il rischio di perdere. E tutto questo ha sempre un costo.

Su quel foglio era scritta la sua storia clinica. Ma aveva già un finale.

Era stato ricoverato per oltre 7 giorni in quell’ospedale e non avevano fatto nulla se non infusione di liquidi. Aveva un’insufficienza renale acuta. Andava fatta un emodialisi. Ma sua madre di fronte alle perplessità dei medici aveva deciso di portarlo via. Abbiamo capito solo dopo aver letto quel foglio che ormai era troppo tardi. Abbiamo capito che con i mezzi a nostra disposizione non si poteva fare molto.

Leggevo negli occhi di quella madre la disperazione. A tratti un cinismo spietato. L’unico che ti permette di decidere tra una vita e una “plata”. Parliamo con lei. Consultiamo altri colleghi della terapia intensiva in città. Le speranze sono drammaticamente ridotte.

In certi momenti vorresti davvero che quella chumpi, quella cintura che loro mettono stretta intorno alla vita, tanto da non respirare, riesca a fermare il male. Speri con tutto il cuore che qualcosa di vero, in quelle credenze ci sia, perché non hai più nulla in cui credere se non un miracolo o una magia.

Pietro parla con lei, le suggerisce la possibilità di trasferirlo in città, iniziare emodialisi, provare il possibile ma senza garanzie di certezze, quelle che chiedeva lei.

Quelle, non poteva dargliele nessuno.

È seduta, di fronte a Pietro. Con una mano si copre il viso e con l’altra afferra la sua camicia e la stringe in un pugno forte, rabbioso… quasi a volerla disintegrare.

Poi alza lo sguardo, prende fiato e dice

– lo porto a casa. –

Gli occhi di Pietro si velano di sconfitta. Poi con calma, di fronte a quella decisione, prova a spiegare a quella donna che possiamo assisterlo a casa con tutto quello che abbiamo a disposizione per alleviare i suoi dolori.

Una rabbia incontenibile mi assale e corro a tentare l’impossibile. Avevo letto su un manuale di tossicologia, che un tempo usavano la bentonite come antidoto a questi avvelenamenti. Corro da Machi e lei mi dice che la terra che ricopre il forno a legna è fatta di bentonite. Ne stacchiamo un pezzetto, facciamo bollire, sedimentare. Filtro quell’acqua, la raccolgo in una bottiglia e corro in sala emergenze. Fuori ci sta lei. La ragazza che prima aveva esitato dinanzi alla porta di entrata. Lei, la sua ragazza. La sua Daney. Piange senza tregua e si dispera… Mi ferma e mi dice – è colpa mia, è stata tutta colpa mia. –

Mi racconta che qualche giorno prima avevano avuto una litigata furiosa in seguito alla quale lei decide di interrompere la relazione. A quel punto lui in preda ad un momento di incontrollabile irrazionalità, decide di compiere un gesto folle, e beve il “gramoxone”.

Le parlo, cerco di allontanare quegli sciocchi sensi di colpa dalla sua testa. E poi le chiedo di entrare con me e fargli bere quell’acqua che avevamo appena preparato.

Lui è sdraiato. Immobile. Si vedono già le ulcere sulle labbra e in bocca. Probabilmente ne è pieno tutto il resto del tratto digerente. Ha le sclere gialle, è itterico. I suoi organi sono già compromessi.

Mi chino su di lui e mi dice con un filo di voce che gli fa male lì, allo stomaco. Brucia forte. Brucia proprio lì dove si concentrano tutte le emozioni. Quelle emozioni che gli hanno aperto le porte dell’inferno.

Gli dico di bere questo “medicamento” ma non ne ha né la voglia, né la forza. Poi con lo sguardo cerca lei, Daney, la sua ragazza, il suo tormento. Vuole che sia lei a darglielo, a piccoli sorsi. Spera che quell’antidoto attraverso le sue mani diventi un acqua miracolosa.

Adesso Sebastian ha il terrore negli occhi. Ha capito cosa sta succedendo. Ha capito quanto è preziosa la vita e vuole viverla.

È un ragazzo, è ancora adolescente. Voleva solo attenzioni. Voleva solo intorpidire quel dolore forte che senti quando ti lacerano l’anima. La testa non risponde, le connessioni si perdono, il cuore ferito e irrazionale prende il sopravvento e dichiara guerra aperta. Questioni di secondi… e sei compromesso per sempre.

Lei si allontana qualche minuto e io continuo a fargli bere quell’acqua. E adesso spero anche io, che sia un’acqua miracolosa.

Abbandono ogni forma di pensiero razionale, ogni conoscenza medica e scientifica. Altro che plasma ricco di piastrine per artrosi e ferite.

Qui non potevo fare davvero più nulla.

E mi sento impotente e sconfitta oggi. Mi sembra di aver perso una partita senza neanche averla giocata. Esco, vado in cucina e bevo anche io. Quasi a voler allontanare la rabbia e la sconfitta.

Poi raggiungo il cancello sul retro dell’ospedale e Sebastian è lì che ha trovato la forza per alzarsi e tornare a casa.

Un taxi lo sta aspettando. Con una mano stringe la sua bottiglia di “acqua miracolosa”, e con l’altra stringe forte la mano di Daney.

Ha capito tutto lui. Ma finge di credere che quel rimedio possa davvero aiutarlo. Una sofferenza lenta e tormentosa lo attende senza sconti. Le pagine del suo libro sono già terminate.

È un racconto breve il suo, forse l’hanno scritto troppo in fretta.

Entra in macchina e con lo sguardo ci sorride e ci ringrazia.

Mi raggomitolo su una panchina di legno in giardino. Ascolto gli uccelli allegri e spensierati, le cicale e il loro coro divino, i bimbi che giocano e ridono di cuore. Guardo i colori di questo posto. Le foglie del gelsomino che danzano soffiate dal vento. Uno scarafaggio attraversa goffo il prato per andare chissà dove… Sento il profumo del “pique macho” che la Ely sta preparando per noi. Il vento lo ha portato lontano, e insolente come sempre, scompiglia i miei capelli indisciplinati. Penso a lui, e a questo vento… che non soffierà più tra i suoi capelli.

Gianna Barrella (Medico Patologo Volontario Anzaldo)

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