Visita al carcere San Sebastian di Cochabamba

15 Marzo 2016

Ho sempre avuto una grande curiosità verso quei luoghi in cui l’essere umano ritorna alla parte più primitiva di sé, come le carceri, gli ospedali psichiatrici, le prigioni. Non a caso, una delle mie serie tv preferite è Locked up Abroad, in onda su National Geographic Channel, che racconta storie di persone imprigionate al di fuori dal proprio paese. Dalle loro testimonianze emerge il dolore dovuto alla lontananza, alla solitudine e alle pessime condizioni di vita. Ed è proprio nel Sud America che ci sono le peggiori prigioni in cui vale la legge della giungla, con condizioni pessime e torture terribili. Detto questo, capirete bene come non appena mio zio ha proposto di visitare il carcere maschile di San Sebastian di Cochabamba non stavo più nella pelle. Ero interessata a vedere con i miei stessi occhi quei luoghi visti solamente attraverso uno schermo, nonostante fossi anche spaventata per quello che mi avrebbe atteso.

E così, in una soleggiata mattina di febbraio, ebbe inizio questa avventura, insieme a mio zio Pietro, mamma Elsa e Gianna, una dottoressa volontaria di Roma. Prima di dirigerci al carcere siamo andati alla ricerca di una farmacia per poter comprare la metformina per un detenuto. Questo era di fatto il nostro lascia passare, non avendo altre motivazioni valide per poter entrare. Giunti alla prigione ci siamo trovati davanti un edificio dall’aspetto diroccato e molto “informale” (la porta d’entrata della prigione era fatta di legno ed era legata ad una corda sottile che una guardia teneva per aprire o chiudere il passaggio… insomma, metodi rudimentale non proprio sicuri). Le guardie, dopo un blando controllo, ci hanno ritirato i passaporti e poi ci hanno permesso di entrare. La visione che mi sono ritrovata davanti è stata molto diversa da quella che mi aspettavo. Una moltitudine di persone che parlavano, ridevano e mangiavano, sedute ai tavolini come se fossero ad un bar, immerse in un vociare incessante. Era una sorta di sala di incontro a cielo aperto in cui i detenuti avevano la possibilità di scambiare qualche parola con i propri cari. Sono stata colpita dai forti odori di cibo, dal brusio di voci e soprattutto dalla tranquillità con cui i detenuti giravano liberi, senza l’obbligo di stare rinchiusi in una cella (cosa che – ammetto – un po’ incuteva timore).

Con l’aiuto della nostra “guida”, un carcerato di nome Wilson, siamo saliti al primo piano per cercare l’uomo che aveva bisogno del nostro medicinale. La sua “stanza” era diroccata, con a mala pena una coperta usata come letto. Il signore era taciturno, guardava fisso un punto e non interagiva con noi se non per ringraziare. Abbiamo invece parlato con un altro detenuto, un ex autista di pullman che per un colpo di sonno mentre era alla guida causò un incidente in cui morirono ben 4 passeggeri. Dalla sua voce e dal suo sguardo si percepiva il dispiacere, il suo essere impotente di fronte a un destino crudele che non aveva previsto. Ci ha raccontato che per passare il tempo dentro le mura si è creato una sua personale arte: costruire degli oggetti a mo’ di origami da rivendere per poter mandare i soldi alla famiglia. Gli ho promesso di inviargli un libro attraverso cui potesse imparare altre arti manuali e siccome una promessa è una promessa non tarderò a inviarglielo.

Dopo averli salutati abbiamo deciso di perlustrare la prigione. Le scene, gli odori, gli sguardi che ho incontrato mi hanno lasciato un po’ spiazzata, a tratti impaurita. Gente che dormiva sotto le scale su delle scatole di cartoni, con vestiti strappati e condizioni igieniche inaccettabili. Stanze che sembravano piccole capanne dal soffitto basso, collegate da corridoi stretti, bui ed angusti. Salendo delle scalette ripide in legno siamo giunti alle stanze più alte – una sorta di sottotetto – e siamo entrati in una che era talmente stretta che a mia mamma, un poco claustrofobica, è iniziata a mancare l’aria. Abbiamo scoperto che in quella “cella” abitavano cinque persone, ma non c’era l’ombra di un letto… solo qualche coperta e dei vestiti appesi. E in quel contesto potevano sembrare anche fortunati, perché almeno loro avevano una stanza e non erano costretti a dormire in un sottoscala.

Nonostante lo spazio fosse limitato, hanno fatto il loro ingresso due ragazzi per raccontarci la loro storia e per svagarsi un attimo. Il primo era un povero ragazzo di 19 anni, in carcere per aver rubato un pollo e ancora in attesa di sentenza. Il dato agghiacciante è che il 98% dei carcerati è in attesa di sentenza: questo significa che per il minimo sgarro si rischia di rimanere dentro per anni e anni. Forse anche ingiustamente. Ovviamente, chi ha i soldi per pagarsi un avvocato può facilmente uscire di prigione, o non entrarvi neanche. Anche il secondo ragazzo, che sei mesi prima rubò una cifra di circa 500 dollari, era in attesa di sentenza. La loro voce era bassa, impercettibile, sommessa. Il loro sguardo era triste, malinconico, rassegnato. Ma fondamentalmente buono (per me gli occhi non mentono). A pelle si percepiva che erano bravi ragazzi in fondo, non di certo terroristi o serial killer. La loro unica colpa sembrava essere quella di essere stati sfrontati davanti alla legge in un paese che non lascia scampo.

E’ entrato poi un terzo ragazzo, che per colpa di una rissa da ubriaco è finito dentro. Dal suo vestiario, dal suo modo di parlare e dalla descrizione della sua stanza percepivo che la sua condizione economica era superiore a quella degli altri. Era un ragazzo “fortunato” là dentro. Aveva una sua cella privata, in cui godersi momenti di privacy ed utilizzare il suo cellulare (vietato in prigione). Ci ha raccontato di essere stato mollato dalla ragazza non appena questa ha saputo dove era finito. Ne parlava con gli occhi di chi vorrebbe fare qualcosa ma non può, perché dei muri decrepiti bloccavano il contatto con l’esterno. Abbiamo chiacchierato della loro quotidianità, di cosa facevano prima e di cosa fanno ora. La cosa curiosa è che in quella camera ridevamo. Forse anche grazie a Pietro, che sa sempre cosa dire anche nelle situazioni più scomode e difficili, l’atmosfera era serena. Ad un tratto era come parlare con dei miei amici, coetanei… non con dei “prigionieri”. Più parlavamo, più percepivo che sotto sotto non erano malvagi o folli, come ci si può aspettare da un detenuto. Erano ragazzi come tutti gli altri, e sapere che la loro vita era confinata a pochi metri quadrati di terreno mi faceva venire il nodo alla gola.

Nel salutarli è poi accaduto uno spiacevole episodio che per fortuna abbiamo preso sul ridere; eravamo in fila indiana per poter uscire dalla stanza e scendere le scale. Io ero l’ultima della fila e quando mio zio e mia madre sono scesi al piano inferiore Wilson ha preso il mio braccio e l’ha tirato verso sé perché voleva che rimanessi nella camera con lui. Ha fatto tutto ciò con il sorriso, a mo’ di scherzo, anche se la sua presa salda non mi ha fatto così ridere al momento. Sono riuscita a liberarmi dalla presa e ritornare da mio zio, con mia mamma preoccupata che urlava il mio nome. L’astinenza dal genere femminile, essendo un carcere maschile, a quanto pare ha le sue conseguenze. Ma per fortuna non è successo nulla.

Abbiamo poi concluso la visita al carcere visitando le cucine, il calzaturificio, la ferramenta e la falegnameria. Da quest’ultima ho acquistato una scatoletta di legno creata da loro, un piccolo ricordo di questa giornata ma soprattutto una sorta di pacca sulla spalla. “Continua così, prima o poi riassaporerai la libertà”. San Sebastian è una sorta di micro-società, cioè una società in piccolo che si autogestisce e si autogoverna e in cui spesso e volentieri vige la legge del più forte. Purtroppo le condizioni di vita non sono rosee, con una grande mancanza di igiene e di spazio. Una volta usciti, sebbene la mia permanenza nel carcere è stata di una trentina di minuti, mi è sembrato di ritornare a respirare. Aria di libertà…

Avrei tanto voluto scrivere questo articolo di pancia, appena uscita. Tantissimi pensieri mi frullavano per la testa e tantissime emozioni mi scorrevano nelle vene. Perché bisogna ammetterlo, il carcere fa riflettere. Sulla vita, sui veri valori della nostra breve esistenza su questa terra, sul piacere dei gesti quotidiani e delle piccole cose. Una camminata nel parco, un pranzo in famiglia, un momento personale di rilassamento. Tutto ciò non è possibile in un carcere. Separato dal mondo, isolato dalla realtà quotidiana che trascorre e non ti aspetta. La cosa che mi colpisce di più è che nella mia visita al carcere San Sebastian non ho visto malvagità bensì ho visto occhi pieni di pentimento, occhi gentili, occhi che rivogliono libertà.

Mara Arzuffi, “sobrina” di Pietro Gamba

Altri Racconti

Un incontro tanto atteso
Un incontro tanto atteso

Silvia, figlia del dottor Pietro Gamba, e suo marito André raccontano l'emozionante viaggio, ricco di incontri speciali...

Auguri di Buona Pasqua 2024
Auguri di Buona Pasqua 2024

Il dottor Pietro Gamba e la sua famiglia augurano a tutti una Buona Pasqua, ringraziando al tempo stesso coloro che hann...

Solidarietà a confronto
Solidarietà a confronto

Due racconti di solidarietà a confronto: la comprensione del lavoro e della fatica del campesino attraverso la cura del...

Bottom Image