Emozioni adrenaliniche

2 Maggio 2017

Una di queste emozioni, ha avuto risvolti, per così dire, adrenalici, quantomeno per me, giovane medico in servizio da pochi mesi presso l’ospedale della Fondazione.
Sono stati giorni di grande lavoro ed impegno qui in Anzaldo nell’Ospedale della Fondazione Pietro Gamba. Molti sono stati i pazienti passati per l’ambulatorio, e molte le chirurgie, soprattutto traumatologiche e quasi tutte concentrate nel fine settimana. I ritmi di lavoro sono stati serrati, gravati dalla imprevista dipartita di un’infermiera, che ha costretto le restanti colleghe a doppi turni ed orari estenuanti. Sono questi, i momenti di difficoltà in cui emerge la profonda vocazione per la professione medico-sanitaria e la vera dedizione per i pazienti.

In questo panorama costituito dai volti e dalle storie dei campesiños che ci visitano ogni giorno, non sono mancate le emozioni, che ci danno l’entusiasmo per assaporare ogni giorno e che ci spronano a fare bene, anzi, a fare meglio. È venerdì pomeriggio, e davanti a noi si prospetta il sospirato ed atteso week-end, epilogo di una lunga ed estenuante settimana di lavoro. Accogliamo in emergenza Doña Firmina, una signora sulla settantina, con lunghi capelli argento raccolti in una lunga treccia che le arriva fin sotto la schiena. Il suo volto è segnato da numerose rughe, profondi solchi che nascondono una vita trascorsa al sole, nei campi. Doña Firmina avanza nella sala di emergenza tenendosi lo stomaco tra le mani, piegata in due da evidente dolore. La sostiene uno dei suoi figli, il solo che ha voluto o potuto accompagnare la madre in ospedale.

Come prevedibile, Doña Firmina parla solo quechua, e sono dunque le infermiere a fare da interprete a me e al dott. Fransvea, chirurgo volontario presso l’ospedale. Dalla mattinata la signora lamenta un costante dolore alla bocca dello stomaco. Nausea, vomito e febbre coronano il quadro clinico della nostra paziente. Dopo un attento esame obiettivo, la clinica ci orienta verso una gastroenterite acuta, diagnosi a cui arriviamo con agilità senza porci troppi interrogativi. Somministriamo un calmante per il dolore ed il vomito, e, considerata l’eccessiva disidratazione cerchiamo di reintegrare le perdite di liquidi attraverso le vene. Doña Firmina sembra rispondere positivamente a questa semplice terapia. Gli spasmi di dolore si attenuano, ed il suo volto torna a distendersi, riacquistando un poco di serenità e sollievo. Soddisfatti della diagnosi e della condotta, decidiamo comunque di tenere la paziente in osservazione fino a sera, per valutarne l’evoluzione. Sarà una scelta che, poche ore dopo, scopriremo essere saggia e Provvidenziale.

Il lavoro tra i malati continua fino quasi al tramonto, e solo dopo qualche ora di lavoro ambulatoriale troviamo il tempo per rivalutare la nostra paziente, convinti di poterla dimettere con le migliori aspettative di guarigione. Ma la realtà che ci attende è ben diversa. Doña Firmina giace infatti sul letto dimenandosi per una nuova crisi di dolore, più violenta della precedente. Questa volta il male non è solo lo stomaco ma è il petto, a livello del cuore. La signora sta avendo un infarto. Il suo volto è in agonia ed il suo respiro si è fatto accelerato ed affannoso. In quella che sembra la danza di un serpente, Doña Firmina si contorce inarcando schiena e gambe, gli occhi spalancati, e la sua voce sembra un gemito di sofferenza.

Trasferiamo la paziente in sala di emergenza, e rapidamente vengono collocati gli strumenti necessari al monitoraggio. In poco tempo elettrodi, cavi e tubi spuntano dalle dita e ricoprono il petto della donna sofferente, che giace al centro della sala e delle nostre attenzioni. Doña Firmina però, non sembra rendersi conto di tutti quegli strani strumenti che la circondano. Il suo petto smette di sollevarsi, i suoi occhi si sbarrano e fissano il vuoto. Non la sentiamo più respirare né gemere per quel dolore che fino a pochi secondi prima le rivoltava le viscere.

Trascorre un solo, ma eterno secondo. Il tempo di un adrenalinico brivido dietro la schiena. Poi, gli allarmi dei monitor disposti nella sala iniziano ad ringhiare come un branco di cani randagi e siamo riportati bruscamente alla realtà. Doña Firmina è in arresto cardio-circolatorio. Il tempo di un rapido sguardo ai monitor per capire ciò che sta realmente succedendo e ci coordiniamo, totalmente impreparati a questa imprevista evenienza.

Mettiamo in pratica quella che mi appare un’impacciata, ma efficace rianimazione cardiopolmonare. Cerco di fare tesoro delle simulazioni praticate sui manichini durante i corsi di primo soccorso, ma tutto ciò non ha nulla a che vedere con un manichino di gomma. Comprimo il torace di Doña Firmina senza troppi indugi. Sento le sue coste piegarsi ed abbassarsi sotto la pressione delle mie mani. Milleuno, milledue, milletre… “Continua a comprimere, non fermarti” mi intima Pietro, che di fianco a me somministra ossigeno ad intervalli regolari. Il cuore è fermo, la paziente è morta … Dentro di me conto.. millequattro, millecinque, millesei… e prego. Prego di fare bene nei secondi che scorrono in quella che sembra un eternità. Giunge il defibrillatore, uno dei tanti apparecchi obsoleti, ma indispensabile in queste occasioni.
“Fibrillazione ventricolare” annuncia Pietro, guardando il monitor. Senza ulteriori indugi, carica il defibrillatore, appoggia le placche sul torace della paziente e scarica. La scossa attraversa il corpo senza vita di Doña Firmina, la cui schiena si inarca per una frazione di secondo, come in preda ad uno spasmo muscolare per poi ricadere pesantemente sul letto.

Riprende la rianimazione, questa volta più decisa e coordinata. Dopo pochi ma eterni minuti, e con un po’ di adrenalina, sul monitor appare un ritmo che diventa poco a poco regolare. Quei primi battiti, scanditi dalla luce verde del monitor risuonano come squilli di tromba nella sala di emergenza e per noi sono un gran successo, una grande emozione. Anche la respirazione ritorna spontanea e progressivamente regolare, e, in circa mezz’ora la paziente recupera anche un vago stato di coscienza. Un grande gioia, ma soprattutto un enorme sollievo mi pervade e riesco a leggere lo stesso sentimento sui volti dei colleghi presenti in sala.

Ma non è ancora il tempo degli elogi. Le condizioni della paziente, per quanto rientrate in quella che si potrebbe definire una precarica stabilità, impongono un urgente trasferimento in un centro di salute dotato di una terapia intensiva e di cure che, l’ospedale della Fondazione , per quanto attrezzato, non può fornire. Si parla dunque con l’unico figlio presente, al fine di convincerlo a trasferire Doña Firmina in ambulanza il più tempestivamente possibile. Ma i nostri buoni propositi sono frenati da un sonoro e secco “NO”. Il figlio, con i fratelli in contatto telefonico, pur comprendendo la necessità del trasferimento, chiedono di consultarsi prima di prendere una decisione che potrebbe costare loro caro. 

Caro, perché proibitivo è il costo di un ricovero in terapia intensiva, in particolare per chi, come Doña Firmina, di soldi non ne ha. A nulla servirà spiegare, gridare o persuadere. Il NO dei figli rimane irremovibile e Doña Firmina resterà in osservazione nell’ospedale di Pietro, fino a quando, a notte fonda, i fratelli decideranno di portare via la paziente in automobile, senza monitoraggio e senza alcuna assistenza. La storia di Doña Firmina si chiude così. Rivedo quella donna, che composta e senza sofferenza, cammina verso l’uscita dell’ospedale come se non fosse passata per quegli attimi drammatici che ci ha fatto vivere. Sale sull’auto di uno dei suoi figli adagiandosi sul sedile anteriore. Ci saluta e ringrazia con un sorriso. Poi la porta dell’auto si chiude e la lasciamo così, mentre si allontana, senza sapere quale sia la sua destinazione, se un altro ospedale o semplicemente casa sua.



Dottor Saul Radaelli

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