Prima impressione

15 Gennaio 2017

Un ribelle, un sognatore, forse un folle. Dopo una settimana trascorsa nel suo ospedale è questa l’idea che mi sono fatto del dottor Pietro Gamba. Ribelle perché ha deciso di andare contro un sistema nel quale se non hai i soldi non esisti. Sognatore perché ha visto un ospedale dove io vedo solo montagne e povertà a perdita d’occhio. Folle perché nessun medico che io conosca avrebbe mai dedicato la propria vita ad un progetto così audace da sconfinare nella follia.

Pietro è un fiume in piena, irruento fino all’esasperazione e con la voglia di fare che gli scoppia nel petto. Sua moglie Margarita è il suo argine, il suo perfetto complemento. Temo che senza di lei, nulla di quanto vedo potrebbe essere.

 Nel loro “Centro Medico Quirurgico Fundacion Pietro Gamba”, sebbene equipaggiato con strumenti che in Italia sarebbero obsoleti per non dire da museo, riescono ad elargire servizi di qualità ai campesinos, gente la cui povertà è inconcepibile per il nostro standard di vita. Gli edifici, i locali, l’arredamento e i servizi dell’ospedale contrastano nettamente con la fatiscenza del paese in cui questo si trova: le strade non asfaltate, i muri che crollano, la povertà dilagante, i cani randagi ovunque… Questa abissale differenza non si nota tuttavia nel carattere e nel modo di fare del dottor Gamba: egli sembra essere un tutt’uno con la cultura locale. I campesinos lo vedono come uno di loro. Parla il Quechua correntemente (non so quanti altri occidentali sarebbero in grado!), mi anticipa cosa risponderanno alle sue richieste perché è perfettamente conscio del loro pensiero, rispetta i loro usi tanto da non impedire ad intere famiglie di stare in camera con il paziente, cosa che sarebbe impensabile in altri ospedali della Bolivia così come nei nostri.

Nonostante questa profonda integrazione con le tradizioni, egli non si tira indietro quando c’è da difendere la Vita: un valore nella nostra cultura è inalienabile ma che qui sembra contare meno di un campo di patate o di un gregge di pecore.

Ho assistito ad un episodio che mi ha molto turbato in tal senso: una coppia di giovani genitori ha portato la loro bimba di due mesi e mezzo all’ospedale perché ammalata. Dopo averla visitata facciamo diagnosi di polmonite. La piccola desatura in maniera preoccupante, necessita di cure immediate che richiedono un centro specializzato e che Pietro non può (ancora) offrire. Nello spiegare la situazione ai genitori e nell’informarli che le cure per la bimba sono gratuite vista la sua età, alla richiesta di trasferire la piccola a Cochabamba, Pietro riceve come risposta un sonoro e secco “no”. Il mio spagnolo vacilla ancora, quindi chiedo conferma ma mi vien detto che ho capito bene. 

 I genitori dicono di non voler portare la bimba in città e che preferiscono lasciarla morire perché hanno altri quattro figli, il campo e gli animali a cui badare. Io sono senza parole, nella mia ignorante tracotanza giovanile vorrei mettere le mani addosso al papà; Pietro è calmo e tranquillo e mi spiega che si sarebbe meravigliato di una risposta differente. Nel corso della sua esperienza si è imbattuto molte volte in situazioni analoghe ed è abituato a questa rassegnazione di fronte alla legge animalesca che vuole che siano solo i più forti a perpetuare la specie. Decide di giocarsi tutte le sue carte per far cambiare idea ai genitori. Dopo due ore di trattativa, in cui è intervenuto mezzo ospedale nel tentativo di mediare, i genitori rimangono inamovibili: non vogliono portare la bimba in città per le cure. Pietro minaccia di denunciare il padre per il suo atteggiamento negligente verso la figlia e mentre sale in macchina per recarsi dalla polizia gli chiedo se ha intenzione di fare sul serio: “Claro que si” mi risponde. È tutto surreale, non riesco a credere ai miei occhi. Mi chiede di filmare per testimoniare il fatto, ma non ci riesco. Torna con la polizia e dopo un’altra mezz’ora di estenuante trattativa riesce a forza a caricarli in ambulanza per portarli a Cochabamba. Ce l’ha fatta anche stavolta. Ma non si limita: tramite sua figlia Silvia che è medico e che ha studiato a Cochabamba, prepara la strada alla piccola paziente allertando il reparto del suo arrivo. Insomma, anche se non disponeva fisicamente degli strumenti per curarla, ha fatto tutto quanto in suo potere per salvare la vita alla piccola, che senza cure sarebbe stata destinata a morte certa. Non si è fermato davanti ad un “no”.

Prima di partire per questa esperienza in Bolivia speravo di poter mettere in tasca un po’ di esperienza medica e soprattutto chirurgica: dopo un settimana che sono qui mi accorgo che quello che voglio è assimilare questa forza interiore e questa determinazione che a prima vista paiono indomabili. Voglio diventare anche io un ribelle, un sognatore, un folle.

Dott. Davide Razzini

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